Viaggio astratto:
il ruolo dell’astrazione
nella storia visiva
della rotta transatlantica
(1950-1970)

Federica Milano

Abstract The article explores abstraction’s role and presence in transatlantic transport decoration from the 1950s to the 1970s. Rooted in 1930s modernist ship interiors, it focuses on Finmare’s commissions for the liners Leonardo da Vinci (1960), Michelangelo, and Raffaello (1965). These “art ships,” shaped by Giulio Carlo Argan’s artistic direction, reflect a paradigm shift. The choice of informal and gestural abstraction served both economic and aesthetic aims, highlighting its decorative and structural qualities—most effectively expressed in the artist-designed tapestries adorning the first-class salons.
Keywords Astrazione / Abstraction; Committenza / Patronage; Aereo / Airplane; Nave / Ship; Arazzeria contemporanea / Contemporary Tapestry

Federica Milano ha conseguito la laurea magistrale presso l’École du Louvre. Dal 2021 svolge una tesi di dottorato presso la Sorbonne Université – Paris IV e dal 2023 in cotutela con La Sapienza sotto la direzione congiunta della Prof.ssa Antonella Sbrilli e di Mme Valérie Mavridorakis. Lo studio riguarda la storia del mecenatismo industriale in Italia e in Francia dalla fine della Seconda guerra mondiale agli anni 1968. Tra il 2019 e il 2021 è stata membro dell’équipe scientifica del programma dell’Institut national d’Histoire de l’art di Parigi 1959-1985, au prisme de la Biennale de Paris e assistente curatrice dell’esposizione archivistica dedicata alla biennale presso il Centre Pompidou. Dal 2022 insegna storia e teoria dell’arte del XX secolo presso Université de Nantes, Université Paris 1 Panthéon-Sorbonne e l’Université Gustave Eiffel.

La storia della traversata transatlantica è stata indagata da molteplici prospettive, siano esse antropologiche, sociologiche o materiali.1 Notevole attenzione è stata riservata anche alla sua storia visiva, che ormai da anni interessa periodicamente i musei europei e americani con mostre dedicate al design a bordo di navi e aerei.2 Da un punto di vista storico-artistico, nel 2017 la Galleria Nazionale di Roma ha dedicato una mostra alla collezione di opere originali a bordo delle cosiddette «navi d’arte»: la Leonardo da Vinci (varata nel 1958), la Michelangelo e la Raffaello (1965), eredi della stagione degli allestimenti «tematici» e considerate le ultime grandi motonavi della storia del traporto passeggeri italiano. In ambito accademico, le ricerche si sono concentrate anche sul rapporto tra decorazione navale e ricezione della tradizione artistica nazionale. Sulla Duilio (1916), la Conte Biancamano (1925) o l’Augustus (1926) regnava un vero e proprio «sistema degli stili», che associava ciascun ambiente ad una determinata epoca storica con particolare rilievo dato alle citazioni dell’arte barocca del XVII e XVIII secolo. La ricchezza e la teatralità di questi allestimenti imitava l’architettura della terra ferma, facendo così dimenticare ai viaggiatori delle classi più agiate i pericoli della traversata.3 Un posto significativo aveva anche la classicità, che intrecciava l’immaginario marino con la mitologia greco-romana.4 I complessi apparati figurativi di ispirazione archeologica, scelti per il riallestimento della Conte Biancamano (1949) o per la motonave Homeric (1955), dovevano immergere i turisti in una raffinata sintesi della cultura antica, predisponendoli alla scoperta di un’identità «mediterranea».
Al contrario, il legame tra il trasporto transatlantico – marittimo o aereo – e l’arte astratta ha suscitato finora un interesse limitato. Sono pochi gli studi, sia in Italia sia all’estero, riguardo alle ragioni che spinsero le compagnie di traporti a scegliere linguaggi astratti, all’influenza di queste scelte sull’esperienza estetica del viaggio, nonché sul loro possibile ruolo nella ricezione delle correnti internazionali contemporanee. Il presente contributo intende approfondire questi aspetti.

Le origini della decorazione modernista

Fin dall’inizio del XX secolo, i transatlantici per il trasporto passeggeri furono considerati dai governi europei importanti spazi per la costruzione di un immaginario nazionale, rivolto ad un pubblico interno ed estero.5 Le lussuose prime classi costituivano altrettante vetrine promozionali dell’art de vivre del paese armatore, in un esplicito parallelismo con i padiglioni nazionali delle esposizioni universali. Dall’inizio degli anni ’20, le principali compagnie francesi, tedesche ed italiane operarono gradualmente una distinzione tra progettazione ingegneristica e allestimento degli interni, affidando quest’ultimo ad architetti civili specializzati in spazi pubblici per alberghi, ristoranti e banche. Il gusto moderno era particolarmente apprezzato nelle navi impegnate sulle rotte più prestigiose, come quella dell’Île de France (1926), che collegava l’Europa agli Stati Uniti. Questa nave della Compagnie Transatlantique francese fu considerata dai contemporanei come la prima dalla decorazione propriamente moderna: i suoi interni, vero trionfo Art déco, si ispiravano esplicitamente alle soluzioni estetiche presentate all’Exposition des Arts Décoratifs et Industriels Modernes di Parigi del 1925. L’impatto visivo degli allestimenti di questa imbarcazione influenzò profondamente il pubblico cosmopolita della prima classe, contribuendo alla diffusione degli stilemi Art déco nell’architettura statunitense dell’epoca.6 Restando in ambito francese, la decorazione dei grandi transatlantici attirò all’epoca l’attenzione anche della corrente architettonica modernista raccolta intorno alla figura di Le Corbusier. Quest’ultimo, da una prospettiva ancora più radicale, sostenne che i «paquebots» avrebbero dovuto rappresentare visivamente delle vere e proprie cattedrali erette al connubio tra arte e tecnica.7 In IItalia, le istanze modernizzatrici furono rappresentate in particolare dagli architetti Gustavo Pulitzer Finali e Gio Ponti. Alla visione del transatlantico come un «palazzo galleggiante» dal gusto storicista e citazionista – promossa soprattutto dalle ditte specializzate in allestimenti Ducrot (palermitana) e Coppedé (fiorentina) – essi contrapposero una nuova concezione di design funzionalista. In un articolo pubblicato per la rivista “Domus” nel 1931, Ponti criticava apertamente l’arredamento «pomposo» e «all’antica», colpevole di negare «tutti gli apporti originali e sinceri dello spirito, dell’arte e della tecnica d’oggi». Egli ammoniva: «I nostri artisti, la cui autorità è alta e significativa e sicura, debbono essere saggiamente presenti con l’opera loro sulle nostre navi».8 In anticipo sui suoi connazionali, Ponti esprimeva così l’esigenza di una nuova e consapevole compenetrazione tra tecnica e arte contemporanea.

Gli allestimenti del dopoguerra

All’indomani della Seconda guerra mondiale, una nuova generazione di transatlantici europei accantonò in effetti il modello del padiglione espositivo, puntando invece a un equilibrio inedito tra rappresentazione nazionale ed elementi architettonici del modernismo internazionale.9 Anche i cantieri italiani adottarono soluzioni all’avanguardia, sia nella scelta dei materiali sia nella concezione, la distribuzione e la decorazione degli spazi. Questa svolta fu resa possibile dall’aiuto dei nuovi alleati, dal sostegno statale tramite la Finmare (ente finanziario dell’Istituto per la Ricostruzione Industriale)10 e dalla «legge del 2%» artistico nelle opere pubbliche.11 Ponti stesso abbandonò il ruolo di commentatore per intervenire direttamente in alcuni progetti di ricostruzione della flotta nazionale.12 Nelle sale realizzate in collaborazione con l’arredatore Nino Zoncada,13 apparvero le opere di Mario Sironi, Massimo Campigli, Fausto Melotti, e Lucio Fontana – quest’ultimo autore, nel 1947, di un importante ciclo di cinque terrecotte smaltate che riprendevano la tratta della Conte Grande verso il Brasile e l’Argentina [fig. 1].14

fig. 1 Lucio Fontana, Mediterraneo, 1949.
Terracotta smaltata, 132 × 77 cm.
Albissola Marina, MuDA – Centro Espositivo.
Courtesy Fondazione Lucio Fontana.

Non sorprende che il gusto modernista in architettura navale si sia affermato inizialmente negli ambienti culturali lombardi. Fin dagli anni Trenta, le città di Monza e poi di Milano erano state al centro di un processo di valorizzazione artistica delle arti applicate e del disegno industriale, in sintonia con le coeve esperienze europee del Bauhaus. Un momento cruciale fu la IV Esposizione Triennale Internazionale delle Arti Decorative ed Industriali Moderne di Monza (1930), che contribuì al dibattito italiano sul rinnovamento dell’architettura navale attraverso la presentazione degli interni del transatlantico tedesco Bremen.15 Con il trasferimento della Triennale a Milano, l’esposizione continuò a proporre al grande pubblico il tema dell’allestimento dei transatlantici, come nel caso del padiglione della Finmare per la IX edizione del 1951.16 Segnata dal clima della  ricostruzione, la IX Triennale affrontava i temi dell’urbanistica e dell’architettura, affiancando il convegno Architettura, misura dell’uomo a una serie di interventi artistici concepiti per il Palazzo dell’Arte, in cui confluivano pittura, scultura e arti applicate. Queste ricerche nutrivano inoltre la presenza, a Milano, di gruppi come lo Spazialismo e il Movimento Arte Concreta, in parte avvicinabili alle esperienze di synthèse des arts del Groupe Espace francese. La sperimentazione al confine tra arti visive, arti applicate e disegno industriale sembrò così trovare une delle sue espressioni più fertili proprio nell’architettura navale.
Gli allestimenti curati da Ponti in collaborazione con gli artisti contemporanei possono essere inseriti in un più ampio progetto di esportazione della «linea italiana» dell’arte, del design e dell’artigianato negli Stati Uniti, paese al quale l’architetto riconosceva una netta superiorità tecnologica e con cui intratteneva rapporti professionali fin dagli anni Venti.17 Dalla fine degli anni Quaranta, Ponti fu coinvolto in diverse iniziative legate ai nuovi scambi culturali tra Italia e Stati Uniti, promossi nell’ambito del Piano Marshall per sostenere il rilancio della produzione artigianale e industriale nazionale.18 Le navi da lui arredate presentavano un impianto decorativo saldamente figurativo, in cui il design moderno e la funzionalità dei materiali si affiancavano ad opere pittoriche e scultoree ispirate alla tradizione artistica del paese, alla sua cultura popolare e al suo patrimonio classico, con frequenti richiami alla mitologia.

Giulio Carlo Argan e la Leonardo da Vinci

L’ingresso dell’arte astratta a bordo della flotta italiana può essere fatto risalire alla metà degli anni Cinquanta, quando lo storico e critico Giulio Carlo Argan fu nominato dalla Società «Italia» di Navigazione a capo della commissione per la decorazione della «nave d’arte» Leonardo da Vinci. All’epoca assiduo frequentatore della Triennale,19 Argan aveva sostenuto fermamente la produzione astratta, fin dall’inizio dell’annoso dibattito che l’aveva contrapposta alla figurazione. La sua nomina a capo della commissione per la decorazione della Leonardo da Vinci impresse una svolta nella concezione degli allestimenti navali. Tenendo conto dei gusti di una clientela cosmopolita, appassionata d’arte e presumibilmente già avvezza alle tendenze internazionali – dal momento che sceglieva di imbarcarsi su una nave tematica –, egli favorì un coinvolgimento più sistematico degli artisti dell’avanguardia italiana contemporanea.
La Leonardo da Vinci fu messa in cantiere nel 1956 dall’Ansaldo di Genova Sestri e compì la sua prima tratta Genova-Napoli-New York nel 1960.20 Accanto a veterani dell’architettura navale come Pulitzer Finali e Zoncada, Argan suggerì di rivolgersi allo studio degli architetti romani Amedeo Luccichenti e Vincenzo Monaco, quest’ultimo legato al critico torinese anche da rapporti di amicizia.21
Lo studio Monaco-Luccichenti, già autore in quegli anni di opere di respiro internazionale come il Villaggio Olimpico e l’aeroporto di Fiumicino, ricevette l’incarico per le principali sale pubbliche della prima classe, le sale da festa e i soggiorni, dove architettura e design moderno dialogavano con le opere degli artisti scelti sotto la direzione di Argan. In questi ambienti, i dipinti di stampo nucleare di Enrico Baj e Gianni Dova si affiancavano ad un quadro ovale geometrico sui toni del blu e dell’arancione firmato da Bruno Munari, all’epoca membro del MAC, seguiti da un décollage di Mimmo Rotella e da un olio informale bianco e nero di Emilio Vedova. La Leonardo da Vinci era anche dotata di una vera e propria quadreria, in cui, accanto a diverse opere figurative, spiccavano due larghe composizioni astratte di Gino Severini e Antonio Corpora.
A completare le decorazioni degli spazi affidati a Monaco e Luccichenti, il Salone delle Feste [fig. 2] ospitava sedici arazzi contemporanei ispirati al tema del viaggio, appositamente concepiti per la nave e tessuti in lana ad alto liccio dalla nuova arazzeria specializzata Italia Disegno di Ugo Scassa.22

fig. 2 Transatlantico Leonardo da Vinci, Salone delle feste (detto anche «salone degli arazzi») della Prima Classe. Immagine pubblicata all’interno dell’opuscolo promozionale Leonardo da Vinci, Italian Line, s.d. Courtesy Fondazione Ansaldo.

Secondo gli architetti, vi dominava l’astrazione grazie a tre arazzi di Corpora che evocavano «il sentimento del mare», tre di Giulio Turcato, due di Giuseppe Santomaso e uno di Olimpia Bernini, «con svolgimento di temi più decorativi a pendant dei temi marini». La decorazione era poi completata da sei arazzi di Corrado Cagli a cavallo tra l’astratto e il figurativo, i cui soggetti ritraevano «l’amore al viaggio ed il sentimento arcano dell’avventura».23
Tra le amicizie di Monaco si contava anche Giuseppe Capogrossi, cui fu riservato un posto di rilievo a bordo.24 L’ex membro del Gruppo Origine firmava una tela ovale bianca su cui campeggiavano variazioni del suo «modulo» archetipico, sorta di semicerchio dentellato apparso tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta. La natura segnica di questa ricerca richiamava la radice visiva della scrittura, integrandosi con l’idea dell’astrazione come codice universale e nuovo linguaggio dell’arte internazionale. All’epoca della committenza Finmare, il segno capogrossiano era infatti ormai perfettamente riconoscibile per qualunque passeggero italiano o americano iniziato all’arte contemporanea. Capogrossi era anche autore di un arazzo posto contro la parete di prua del Salone delle feste. Su uno sfondo color sabbia, le variazioni cromatiche andavano da una palette scura dai toni del nero, grigio e verde bottiglia, fino ai più chiari del giallo, ocra, arancio pallido, carta da zucchero e avorio. Il segno si ripeteva secondo ritmi irregolari, alternando pieni e vuoti attraverso dentellature sempre diverse. La lunghezza del tessuto era accentuata da una catena continua di moduli che, pur nell’alternanza di forme e colori, percorreva senza interruzioni la composizione da sinistra verso destra. L’effetto prodotto era quello di una vera e propria linea dell’orizzonte, eco del panorama marino visibile dai ponti del transatlantico.

Le gemelle Michelangelo e Raffaello

Il successivo coinvolgimento di Argan nelle commissioni per l’allestimento delle gemelle Raffaello e Michelangelo, all’inizio degli anni Sessanta, confermò la centralità dei network architettonici e artistici romani a lui vicini all’interno delle commesse promosse dalla Finmare. Entrambe le turbonavi furono messe in cantiere nel 1960. Per gli spazi di rappresentanza della Raffaello fu selezionato lo studio Lapadula di via dell’Oca a Roma, in collaborazione con l’architetto Fabio Massimo Poggiolini.25 Tra gli interventi principali figuravano un arazzo astrattista dedicato alle quattro stagioni di Mario Deluigi, posto al centro della parete poppiera del salone «Veneziana», e una scultura bronzea informale di Edgardo Mannucci, collocata nel soggiorno. Il progetto più ambizioso era però quello del bar «Atlantico», per il quale l’Arazzeria Scassa (ex Italia Disegno) ricevette la commissione di ventidue arazzi identici per formato e fondo cromatico, tratti da bozzetti di artisti contemporanei. Gli autori furono selezionati principalmente tramite i contatti dell’Art Club romano, intorno a cui gravitano tanto Argan quanto i fratelli Lapadula.26 L’elenco costituisce una sorta di catalogo dell’arte astratta italiana del tempo: Carla Accardi, Michelangelo Conte, Roberto Ercolini, Edoardo Giordano, Costantino Guenzi, Bice Lazzari, Luigi Montanarini, Gastone Novelli, Achille Pace, Luigi Piciotti, Giuseppe Picone, Mimmo Rotella, Piero Sadun, Antonio Sanfilippo, Antonio Scordia, Federico Spoltore, Alessandro Trotti, Giulio Turcato e Antonio Virduzzo. Il bar della Veranda «Bermuda» era invece decorato da due grandi arazzi su disegno di Vedova.
Sulla Michelangelo, le principali sale di rappresentanza della prima classe furono nuovamente affidate agli architetti dello studio Monaco-Luccichenti, questa volta in collaborazione con Nino Zoncada.27 Si trattava del Gran Bar con le adiacenti sale lettura e sala gioco, la sala soggiorno e il salone delle feste. Il Gran Bar era decorato da due opere astratte: una tela di Giulio Turcato, caratterizzata da una calda gamma di rossi e arancioni, e un dipinto di Antonio Corpora, che raffigurava in chiave simbolica il Passaggio a Gibilterra. Gli ultimi due locali erano invece concepiti come un’unica ampia area comunicante per gli eventi mondani. Il salone delle feste era decorato da quattro arazzi dello studio Zoncada su disegni dello xilografo Tranquillo Marangoni [fig. 3], che riprendeva qui i motivi floreali dell’arazzeria tradizionale fiamminga. A dominare la parete di prua era un grande arazzo intitolato Composizione Astratta di Capogrossi, a cui era nuovamente riservato un posto d’onore [fig. 4].

fig. 3 Tranquillo Marangoni, Studio Zoncada, Verdure, 1964 circa.
Arazzo ad alto liccio in lana, 215 × 700 cm (tessitura Arazzeria Scassa).
Roma, Galleria Nazionale. Courtesy Fondazione Ansaldo.

fig. 4 Giuseppe Capogrossi, Composizione Astratta, 1963.
Arazzo ad alto liccio in lana, 142 × 355 cm (tessitura Arazzeria Scassa).
Collezione privata. Courtesy Arazzeria Scassa.

L’astrazione era per altro presente anche all’interno delle classi inferiori, sebbene in misura minore e spesso ad opera di artisti meno quotati. Come per la Leonardo da Vinci, le due turbonavi gemelle erano poi dotate di pinacoteche per l’esposizione di quadri contemporanei. Su entrambe, queste «gallerie-pinacoteche» occupavano uno dei corridoi di collegamento tra il Salone delle Feste di prima classe e la Sala Soggiorno della classe turistica, accessibili da entrambi i lati. I sedici quadri appesi nella galleria della Raffaello erano esclusivamente figurativi: vi prevalevano le nature morte, le figure femminili e i soggetti festivi, con un’attenzione particolare ai temi marini. A bordo della Michelangelo, gli stessi spazi erano invece occupati da dodici tele di cui quattro astratte, firmate da Afro Basaldella, Fausto Pirandello, Santomaso e Severini.

La logica espositiva sulle «navi d’arte»

Le scelte estetiche adottate rappresentarono all’epoca un unicum nel panorama della decorazione navale, comparabile solo a quelle operate dalle compagnie inglesi Orient Line per l’Oriana (1960) e P&O per la Canberra (1961), impiegate entrambe sulla popolare rotta verso l’Oceania.28 È, inoltre, significativo osservare come nei tre transatlantici dedicati ai maestri del Rinascimento sia stata introdotta una logica espositiva inedita rispetto ai modelli precedenti di fruizione artistica a bordo dei mezzi di trasporto. Negli interni eclettici di inizio secolo, era prevalsa infatti una concezione che potremmo definire «museale», dove l’intento nazionalista era espresso attraverso la valorizzazione degli stilemi del passato artistico e della tradizione culturale del Paese. Una strategia analoga prevaleva anche negli allestimenti curati da Ponti, attento a esaltare la produzione artigianale e l’identità visiva nazionale. Al contrario, a bordo delle tre navi degli anni Sessanta si affermò un approccio «galleristico» delle sale, dove la qualità delle opere e la coerenza estetica degli ambienti erano garantite dall’autorità di Argan.
Rispetto alle navi del passato, secondo Argan la selezione degli artisti rifletteva qui apertamente le dinamiche del circuito mercantile ed espositivo europeo e americano. Il critico lo ribadiva in un opuscolo informativo destinato ai passeggeri anglofoni:

«Discerning transatlantic passengers may enjoy their voyage amid a floating exhibition of the finest in contemporary Italian art. […] These painters and sculptors are outstanding in their respective fields. Their work has been shown and acclaimed at numerous International Exhibitions—and many of their works are in the permanent collections of both European and American museums».29

I cicli decorativi per le tre navi vanno così inseriti in un già ampio sistema di scambi e relazioni che univa l’Italia agli Stati Uniti nel contesto della guerra fredda.30 Molti degli autori coinvolti erano infatti legati a quelle reti filostatunitensi tessute ad esempio da Lionello Venturi, mentore di Argan e figura centrale nel mediare tra gli ex membri del Gruppo degli Otto e gli Stati Uniti.31 Altri erano poi rappresentati da mercanti e galleristi dal profilo internazionale: è il caso del sodalizio tra Carlo Cardazzo e Peggy Guggenheim, agenti chiave per l’affermazione delle tendenze informali e spazialiste presso il pubblico americano.32 Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Sessanta, molti di questi artisti avevano partecipato a diverse esposizioni di arte italiana ed europea negli Stati Uniti; alcuni avevano già tenuto mostre personali presso gallerie newyorkesi, mentre altri erano ormai integrati nel circuito espositivo internazionale.33
L’orientamento «galleristico» si riflette anche nella presenza delle quadrerie. Benché le opere non fossero in vendita, l’inclusione di questi spazi espositivi potrebbe essere legata ad un iniziale progetto di allestimento di mostre temporanee con finalità commerciali sulla Leonardo da Vinci. Come ricordava l’architetto Monaco:

«[…] Si era anche pensato di organizzare a bordo una mostra di quadri italiani da vendersi in America durante la sosta. Laggiù si poteva comperare quadri americani da vendersi in Italia. La Leonardo da Vinci sarebbe divenuta una galleria d’arte galleggiante».34

Anche se tale progetto non si concretizzò mai, le «navi d’arte» furono comunque aperte ad un pubblico generalista ben al di là dei passeggeri delle prime classi. Durante i periodi in porto, i transatlantici – e le opere che custodivano – venivano trattati come vere e proprie attrazioni, visitabili dai cittadini curiosi previo pagamento di un biglietto di ingresso. I grandi saloni e le sale da ballo facevano poi da cornice per importanti eventi mondani e feste private, che potevano impegnare le navi su piccole tratte speciali.35 Nonostante la difficoltà di stimare con precisione il numero di visitatori, è plausibile ritenere che queste iniziative abbiano contribuito a incrementare la visibilità delle opere esposte, rafforzando così l’associazione tra arte astratta e identità culturale italiana nel contesto internazionale.

Committenti e destinatari dell’astrazione

Un allestimento come quello concepito per le «navi d’arte» si inseriva bene nell’immagine che l’industria italiana del miracolo economico desiderava offrire di sé agli alleati attraverso strategie di mecenatismo e committenza. Aziende come Pirelli o Breda, ad esempio, utilizzavano fiere e mostre di settore per proporre un’identità visiva aggiornata e dinamica in collaborazione con artisti contemporanei. Lo stesso Gruppo IRI (di cui Finmare faceva parte) intensificava le sue relazioni con il mondo dell’arte astratta e informale, sia attraverso le proprie pubblicazioni, come nel caso del periodico “Civiltà delle Macchine”, sia tramite le collaborazioni dirette, come quella con lo scultore Eugenio Carmi nei cantieri di Genova Cornigliano, collegati ai lavori del porto. In questo contesto, Argan fu una figura centrale di quella che è stata giustamente definita la corrente critica «neo-industriale»36 del secondo dopoguerra. Questa linea modernista di eredità bauhausiana promuoveva la funzione «umanizzante» dell’arte quando inserita in un contesto tecnico-scientifico; essa chiamava intellettuali e artisti ad una presa di responsabilità sociale, allo scopo di contribuire allo sforzo di industrializzazione del Paese. Tra gli anni Cinquanta e Settanta Argan svolse a più riprese un ruolo primario di mediatore nei rapporti tra gli artisti, le istituzioni culturali e i committenti industriali. È noto, ad esempio, il suo coinvolgimento al fianco di Venturi nella rivista “Esso” e nelle giurie dei premi omonimi, così come la sua amicizia con Adriano Olivetti e il sostegno alle sperimentazioni dell’azienda di Ivrea in dialogo con l’avanguardia ottico-cinetica.37
Se la preferenza accordata ad opere astratte di matrice informale e gestuale contribuiva a costruire un’immagine dell’industria italiana dinamica e all’avanguardia, essa rispondeva anche alle aspettative dei viaggiatori americani, tradizionalmente considerati un segmento cruciale del mercato per gli armatori europei.38 Negli anni Sessanta, la clientela americana di prima classe era ormai abituata a incontrare opere dell’Espressionismo Astratto in contesti rappresentativi, dagli uffici aziendali agli spazi pubblici. Fin dagli anni Cinquanta, infatti, l’acquisto di opere della Scuola di New York da parte della classe dirigente per gli ambienti lavorativi e ricreativi fungeva da presupposto antidoto alle conseguenze «disumanizzanti» della vita moderna, con particolare riferimento agli effetti oppressivi delle strategie di organizzazione e gestione della produzione.39 La sofisticatezza, la versatilità e, allo stesso tempo, il carattere visivamente e mentalmente «riposante» attribuito alle opere di alcuni astrattisti contemporanei le rendevano un investimento sicuro e proficuo, che alimentava le collezioni private di imprese, banche e istituzioni pubbliche.40 Un effetto simile fu probabilmente ricercato per le navi della compagnia nazionale italiana.

Un allestimento che possa essere letto e riletto

Nei locali dei trasporti atlantici la decorazione doveva potersi conservare a lungo e adeguarsi a una visione prolungata, soprattutto considerando la quantità di tempo trascorsa dai passeggeri sottocoperta e il numero limitato di oblò su questo tipo di imbarcazioni. Nell’opuscolo sopracitato, Argan continuava rivolgendosi ai passeggeri:

«[…] by its very nature, [abstraction] is adaptable to contemporary high-fashion decor. […] A painting or sculpture which depicts an event or a word picture may arouse interest, but if it is not a true masterpiece, its impression fades, like a popular novel, a transitory thing which cannot be read and reread. An abstract composition, however, naturally integrates with the structural interior, neither arouses nor diverts the beholder, because it is an essential element of the setting. Its form and color make no pretense of reproducing nature, so they are generally freely harmonized, and tend to define space in terms of architectural clarity and thus become almost structural in effect».41

Le tavole dei progetti della Leonardo de Vinci e della Michelangelo conservate nel fondo Monaco-Luccichenti ci permettono di visualizzare questo rapporto tra architettura e astrazione [fig. 5]. A indicare, ad esempio, la disposizione dei lavori di Burri, Rotella ed Emilio Scanavino [fig. 6], campeggiano dei ritagli di giornali illustrati in bianco e nero e a colori. L’indefinitezza di queste immagini riconduce le opere alla loro dimensione puramente coloristica e decorativa, parte integrante del mobilio.42 La scelta del medium dell’arazzo coronava poi la ricerca dell’integrazione tra architettura e pittura nel segno dell’arte applicata. Il secondo dopoguerra vedeva una rinascita internazionale di questa forma d’arte tradizionale, con epicentro in Francia e con un fiorente mercato negli Stati Uniti.43 In Italia, questo revival si innestò sulla sperimentazione tessile futurista e trovò nuovamente terreno fertile negli ambienti della Triennale e del MAC. Fu promosso proprio dalle commesse della Finmare:44 oltre al suo prestigioso valore simbolico, l’arazzo si armonizzava infatti facilmente con l’uso estensivo del tessuto per pavimenti, pareti, mobilio e tendaggi. La lana, infine, rispondeva agli standard di sicurezza imposti dalla regolamentazione internazionale, grazie alla sua qualità naturalmente ignifuga.

fig. 5 Studio Monaco-Luccichenti, Leonardo da Vinci.
Sala Soggiorno 1° classe. Prospetto parete di poppa. Sezione asse sala.
Fondo Monaco-Luccichenti, Centro Archivi Architettura, MAXXI.

fig. 6 Emilio Scanavino, pannello nel salone centrale della Leonardo da Vinci.
Copertina di Civiltà delle Macchine, a. VIII, luglio-agosto 1960.
Courtesy Fondazione Ansaldo.

L’accostamento tra gli arazzi di Marangoni e quello di Capogrossi nel salone delle feste della Michelangelo costituisce un esempio dell’integrazione tra le opere e l’ambiente in chiave decorativa. La composizione di Capogrossi era tessuta sui toni del bianco, del nero e del grigio, mentre spiccava un rosso primario che si armonizzava con i colori scelti da Zoncada per la moquette del pavimento e il velluto delle poltrone [fig. 7]. Il formato orizzontale del tessuto era scandito in senso verticale; la composizione che ne risultava richiamava, in parte, il ritmo spaziale delle opere di Marangoni, costruito tramite la disposizione irregolare delle feuilles de choux. Per composizione, tecnica e disposizione spaziale, l’insieme suggeriva così agli occhi del pubblico una forma di continuità tra il segno capogrossiano e la foglia di cavolo della tappezzeria fiamminga.

fig. 7 Transatlantico Michelangelo, Sala soggiorno della Prima Classe. Courtesy Fondazione Ansaldo.

La critica alle «raffinatezze da salotto»

Come molti degli artisti del dopoguerra, Capogrossi era sensibile all’esigenza di una collaborazione tra arte e architettura nella ridefinizione degli spazi ricostruiti dopo la fine del conflitto. Nell’ambito delle Triennali degli anni Cinquanta, l’artista aveva iniziato a sperimentare con le arti applicate, come il tappeto e il mosaico: produzioni che avrebbero affiancato la sua ricerca pittorica per tutto l’arco della carriera. Il potenziale decorativo e commerciale del modulo capogrossiano non era peraltro sfuggito al suo gallerista, Cardazzo, che lo incoraggiò a esplorare i linguaggi della ceramica e del tessuto.45
Queste incursioni nel campo delle arti applicate non erano però esenti da critiche, anche all’interno degli stessi ambienti astrattisti. I lavori di Capogrossi furono attaccati apertamente dagli artisti nucleari – anch’essi presenti sulle «navi d’arte» come nel caso di Baj – quando, nel loro manifesto Contro lo stile (1957), invitarono l’artista romano a scegliere se essere «tappezzieri o pittori». Il discorso di Argan per i transatlantici appare, così, in parziale contrasto con le intenzioni espresse da alcuni autori dei dipinti e dei cartoni per gli arazzi. Questa opposizione è particolarmente evidente nel caso delle opere appartenenti alle correnti informali, espressioniste e gestuali, i cui lavori tendevano a caricarsi di un significato esistenziale e individuale, più che a integrarsi armonicamente con l’ambiente architettonico.
In una lettera destinata all’arazziere Scassa, anche Vedova rivendicava, ad esempio, il carattere perturbatore dei suoi lavori per il bar della Raffaello [fig. 8]:

«[…] attenzione alle finite gradazioni dei neri e dei grigi, che dovranno però ESSERE SCATTANTI E NON SFUMATI, A PARTITURE TIMBRICHE, AGGRESSIVI, insomma fedelissimi ai bozzetti […] dovranno acquistare forza, SCATTO. E MAI SCADERE NEL TONALE. ATTENZIONE A NON FARNE UNA TAPPEZZERIA DI INFINITE VIRTUOSISTICHE “NUANCES” di grigi/neri. La mia pittura è anche sensibile, ma mai preziosistica e indulgente a raffinatezze da salotto. Ne deve risultare una cosa barbara, grezza, forte, con analogie materiche di strappi e lacerazioni».46

fig. 8 Elenco delle opere d’arte asportate
dalle navi sociali
Pagina dedicata a Emilio Vedova,
Astratto, 1964 circa.
Arazzo ad alto liccio in lana, 160 × 340
(tessitura Arazzeria Scassa).
Archivio Fondazione Ansaldo.

La qualità drammatica e aggressiva ricercata dall’artista veniva ulteriormente accentuata grazie alle innovazioni introdotte dall’Arazzeria Scassa nella tecnica dell’alto liccio. Queste permettevano di ottenere un’altissima fedeltà alla palette originale, una resa della gestualità della pennellata e un forte materismo di superficie, in grado di restituire appieno l’espressività delle opere di Vedeva. Lo stesso Ugo Scassa si era infatti formato all’interno del milieu dell’avanguardia artistica torinese. Nel 1956 aveva aperto la galleria Il Prisma insieme al pittore concretista Filippo Scroppo, con mostre personali dedicate, tra gli altri, a Baj, Fontana e Asger Jorn [fig. 9].47

fig. 9 Galleria Il Prisma, Esposizione di Asger Jorn, 1956 circa. Archivio Arazzeria Scassa.

Finmare e Alitalia

La Michelangelo e la Raffaello rimasero in attività solo fino al 1975, anno dello smantellamento degli interni e della vendita delle imbarcazioni. L’inizio del declino del trasporto oceanico viene fatto risalire al 1968, data simbolica del primo volo del Boeing 747 e dell’avvio di un fenomeno di progressiva diffusione e democratizzazione del trasporto aereo. Quando gli interni della Michelangelo e della Raffaello furono smantellati, i cicli di arazzi della Finmare continuarono comunque a svolgere la loro funzione di prestigio e rappresentanza, andando a decorare sedi governative e uffici pubblici.48 Le commesse dell’Alitalia tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta possono essere lette in continuità con quelle della Finmare. La compagnia aerea di bandiera decise anch’essa di rivolgersi ad artisti e architetti contemporanei per l’allestimento di alcune delle sue sedi più importanti. Nel 1958, l’agenzia Alitalia di New York fu affidata a Gio Ponti,49 che si avvalse nuovamente della collaborazione di due ceramisti già coinvolti nella decorazione dei transatlantici: Melotti e Romano Rui. Ancora una volta, il progetto rispondeva tanto alla «funzionalità d’attrattiva» per i turisti americani quanto a quella «rappresentativa» per lo Stato italiano.50 L’impianto decorativo, strettamente figurativo, era radicato nella tradizione artigianale nazionale, poiché, secondo Ponti, l’architettura del turismo doveva essere collegata all’azione di cultura popolare. Le sculture in terracotta di Melotti rappresentavano «viaggiatrici» e «viaggiatori», mentre i pannelli di ceramica dipinta di Rui raffiguravano aerei che sorvolavano paesaggi urbani. Il colore azzurro della piastrellatura, che caratterizzava l’ambiente, richiamava non solo il cielo ed il volo, ma anche il colore simbolo della compagnia.
Oltre all’arredamento delle agenzie e dei terminal, durante gli anni Sessanta Alitalia sperimentò anche nell’ambito della decorazione degli interni dei mezzi stessi. A bordo del Douglas DC-8, allestito dall’architetto Ignazio Gardella nel 1960 [fig. 10],51 i richiami all’iconografia del viaggio e alla cultura popolare lasciarono il posto ad una commistione tra astrazione e figurazione, con opere di Marino Marini, Corpora e Santomaso. Un dipinto di Renato Guttuso raffigurante le fronde di un albero d’arancio fronteggiava una «carta muta» nei toni del rosso, firmata da Cagli. La prima classe era decorata da tre tempere di Mirko, accanto alle quali si leggeva, in diverse lingue: «I pittori italiani contemporanei collaborano con Alitalia per rendere più attraente il vostro volo».

fig. 10 Interno del DC 8 Douglas, in
“Un nuovo aereo italiano. Ignazio Gardella, arch.”,
Domus, n. 371, ottobre 1960, p. 8.
Courtesy of Domus © Editoriale Domus S.p.A.

Come per la Leonardo da Vinci, anche l’aeroplano di Alitalia doveva diventare, nell’intenzione dei committenti, «una sorta di galleria viaggiante, con quadri sempre nuovi in mostra e in vendita».52 Nonostante sia difficile appurare se e quali tele siano state effettivamente vendute, si può affermare con sicurezza che la concezione dell’aeroplano portava il progetto della «galleria viaggiante» ad uno stadio inedito rispetto alle esperienze promosse dalla Finmare. A differenza degli architetti romani scelti da Argan, Gardella era infatti specializzato nella progettazione di spazi espositivi, tanto per negozi e padiglioni fieristici quanto per musei e gallerie d’arte.53 I suoi disegni esecutivi mostravano diversi schemi di forature e sistemi di ancoraggio delle tele ai pannelli divisori dell’aereo, che testimoniano la sua attenzione alla disposizione delle opere per costruire fuochi visivi, equilibri e contrappunti nello spazio della cabina.54 La selezione delle opere e degli artisti aveva però un carattere meno coerente ed unitario – per stile, cromia e tema – rispetto agli allestimenti delle «navi d’arte», poiché le opere erano destinate a variare in funzione delle vendite.

L’astrazione sulle linee aeree fino agli anni Settanta

L’Alitalia non rappresentò per altro l’unica compagnia aerea a tentare di mantenere viva la tradizione degli allestimenti navali. Un altro esempio significativo è quello dell’Air France, erede dei paquebots. La compagnia di bandiera francese puntò sulla collaborazione di architetti e designer modernisti come Charlotte Perriand,55 il cui lavoro contribuì a creare un’identità visiva moderna ed elegante.56 In occasione dell’allestimento dei bar dei saloni delle prime classi sui Boeing 707, alla fine degli anni Sessanta, l’Air France decise di commissionare una serie di arazzi di dimensioni ridotte (100 × 60 cm), realizzati su cartoni di artisti maggiori della scena contemporanea francese. La lista delle opere commissionate comprendeva maestri appartenenti alle diverse correnti astrattiste del dopoguerra, quali Sonia Delaunay, Victor Vasarely, Pierre Alechinsky, Hans Hartung, Pierre Soulages, Jacques Lagrange, Maurice André, Gustave Singier o ancora Alfred Manessier.
L’astrazione fu nuovamente privilegiata in occasione della campagna degli anni Settanta per la decorazione dei Boeing 747, i più prestigiosi della flotta. L’Air France propose questa volta di dipingere direttamente le porte in laminato ininfiammabile dei guardaroba della prima classe. Furono coinvolti i maestri della Nouvelle École de Paris: vi si trovavano le costruzioni geometriche di Delauney, le opere gestuali di Soulages e Chantal Berry-Maudit, o l’Abstraction Lyrique di Singier e di Zao Wou-Ki.57 Come per la Leonardo da Vinci, ciascuna delle opere per i Boeing aveva l’obiettivo di evocare, in forma astratta, il tema del viaggio, rappresentando l’esperienza del passeggero attraverso un immaginario non figurativo ma ricco di rimandi poetici. La committenza francese sceglieva così di concentrarsi sul portato espressivo ed emotivo dell’astrazione. In occasione di una campagna pubblicitaria in collaborazione con Georges Mathieu, i promotori si chiedevano ad esempio: «Comment, dans une industrie comme celle du transport aérien, dont la mission fondamentale est de servir de trait d’union aux divers peuples de la terre, peut-on trouver des signes, des images et des symboles d’une signification universelle?».58 L’astrazione veniva qui considerata, ancora una volta, linguaggio «simbolico» e universale, consona alla rappresentazione del volo come desiderio ancestrale e esperienza mitica.
Mentre le scelte artistiche di Argan per la Leonardo da Vinci mostrano la lungimiranza della commissione, gli allestimenti delle prime classi dell’Air France testimoniano dell’avvenuta storicizzazione e istituzionalizzazione dell’arte astratta negli anni Settanta. Durante il decennio successivo, l’aumento della mobilità individuale e la massificazione del fenomeno del turismo avrebbero progressivamente ridotto il divario materiale tra la prima classe e la classe turistica a bordo degli aerei, scoraggiando il mecenatismo artistico da parte delle compagnie. L’arte ricomparirà invece a bordo delle navi durante gli anni ’90, grazie alle nuove committenze private per le crociere tematiche – come quelle della Costa59 – in un contesto assai diverso da quello da cui siamo partiti.

Note
1. In Italia, molte di queste ricerche riguardano la storia delle migrazioni. Cfr.: Storia dell’emigrazione italiana, Donzelli, Roma, 2001; Michele Colucci e Stefano Gallo, L’emigrazione italiana. Storia e documenti, Morcelliana, Brescia, 2015; Enrico Pugliese e Mattia Vitiello, Storia sociale dell’emigrazione italiana. Dall’Unità ad oggi, Il Mulino, Bologna, 2024. Riguardo al fenomeno inverso, cfr: Amanda Klekowski von Koppenfels, Migrants or expatriates? Americans in Europe, Palgrave Macmillan, Houndmills, 2014. Per quanto riguarda invece la storia materiale, tralasciando l’aspetto tecnologico, cfr: Transatlantici. Scenari e sogni di mare, Skira, Milano, 2004; Maurizio Eliseo e Paolo Piccione, Transatlantici. Storia delle grandi navi passeggeri italiane, Tormena, Genova, 2001; Tommaso Fanfani, La penisola italiana e il mare. Costruzioni navali, trasporti e commerci tra XV e XX secolo (atti del convegno, Viareggio 29 aprile – 1° maggio 1991), Ed. scientifiche italiane, Napoli, 1993.
2. Per quanto riguarda la storia dell’architettura e la decorazione navale italiana, si ricorda l’esposizione Elisa Coppola (a cura di), Six wonderful days. Un invito al viaggio sulle grandi navi italiane (catalogo della mostra, Genova, sedi varie, 13 dicembre 2002 – 16 febbrario 2003), Tormena, Genova, 2002. Tra le esposizioni estere: Richard Oliver (a cura di), The oceanliner. Speed, style, symbol (catalogo della mostra, New York, Cooper-Hewitt Museum, 22 gennaio – 6 aprile 1980), Smithsonian Institut, New York, 1980; Ocean Liners. Speed and style (catalogo della mostra, Londra, Victoria & Albert museum, 3 febbraio – 17 giugno 2018), V&A publishing, London, 2018; Mylène Allano (a cura di), Paquebots. À la croisée des arts décoratifs (catalogo della mostra, Lamballe-Armor, Musée Mathurin Méheut, 18 giugno 2022 – 8 gennaio 2023), les Éditions de Juillet, Chantepie, 2022; Paquebots, 1913-1942. Une esthétique transatlantique (catalogo della mostra, Nantes, Musée d’arts, 25 ottobre 2024 – 23 febbraio 2025), Connaissance des arts, Paris, 2025. Per quanto riguarda il trasporto aereo: Alexander von Vegesack (a cura di), Airworld. Design and architecture for air travel (catalogo della mostra, Weil am Rhein, Vitra Design Museum, 5 maggio 2004 – 27 febbraio 2005), Vitra Design Stiftung, Weil am Rhein, 2004; Françoise Lucbert (a cura di), Avion, aviateur, aviation. Cent ans de fascination, 1908-2008 (catalogo della mostra, Le Mans, Musée de Tessé, 11 novembre 2008 – 22 febbraio 2009), Éd. Cénomane Musées du Mans, Le Mans, 2008. Per quanto riguarda infine l’impatto dell’aviazione sull’arte moderna: Christoph Asendorf, Super-Constellation – Flugzeug und Raumrevolution die Wirkung der Luftfahrt auf Kunst und Kultur der Moderne, Springer, Wien, 1996.
3. Daniele Gallieni, “La decorazione barocca a bordo dei grandi transatlantici italiani. Un’introduzione”, in Maria Beatrice Failla e Serena Quagliaroli (a cura di), Riflessioni su barocco e modernità (atti del Seminario di Studi Baroquemania, Torino, Fondazione 1563, 17 aprile 2023), Fondazione 1563, Torino, 2023.
4. Massimo De Grassi, “L’antico in viaggio. La ricezione della classicità nella decorazione dei transatlantici”, in Vivendo Vincere Saecula. Ricezione e tradizione dell’antico, 2022, pp. 311-344.
5. Con il termine «immaginario», si fa riferimento alle teorie dell’«immaginario sociale» di Cornelius Castoriadis, L’institution imaginaire de la société, Le Seuil, Paris, 1975. Per quanto riguarda i transatlantici, cfr: Laura Fotia, La crociera della nave “Italia e le origini della diplomazia culturale del fascismo in America Latina, Aracne editrice, Canterano, 2017.
6. Allano, Paquebots, 2022, p. 4.
7. Le Corbusier, Vers une architecture, Édition Flammarion, Paris, 2005 (1923), pp. 70-71.
8. Gio Ponti, “L’arredamento navale oggi e domani”, Domus, n. 46, ottobre 1931, pp. 22-24.
9. Oliver, The oceanliner, 1980, p. 145.
10. Cfr. Franco Amatori e Andrea Colli, Storia dell’IRI. 2. Il miracolo economico e il ruolo dell’IRI, 1949-1972, Laterza, Roma-Bari, 2013.
11. Cfr. La legge del 2% e l’arte negli spazi pubblici. Legge n.717 del 1949, Curabooks, Roma, 2017.
12. Per un panorama delle principali attività di Ponti in quanto architetto per i transatlantici, cfr. Paolo Piccione, Gio Ponti. Le navi, Idea books, Viareggio, 2007.
13. Per un panorama del lavoro di Nino Zoncada, cfr. Giulia Norbedo e Giulio Princic, Nino Zoncada. Da Montefalcone al mondo, Edizioni Comune di Monteflacone, Montefalcone, 2020; Paolo Piccione, Nino Zoncada. Interni navali 1931-1971, GMT Edizioni, Genova, 2007.
14. Cfr. Cecilia Chilosi, “Mediterraneo, Spagna, Brasile, I cavalieri dell’Apocalisse. I quattro pannelli ceramici a bordo della Conte Grande e il contributo di Fontana all’architettura di nave”, in Elisa Coppola (a cura di), Six wonderful days, 2002; Matteo Fochessati, Pottery on board. Fontana, Alfieri, Luzzati e la ceramica di Albisola a bordo dei transatlantici italiani, Vanillaedizioni, Albissola Marina, 2016, pp. 57-63. Fontana affiancava da anni alla propria ricerca plastica una produzione ceramica destinata all’architettura; cfr. Lucio Fontana e Milano, Electa, Milano, 1996.
15. Piccione, Nino Zoncada, 2007, p. 17.
16. Idem, p. 48.
17. Daniel Sherer, “Gio Ponti a New York. Design, architettura e strategia nella sintesi, 1928-1959”, in Germano Celant (a cura di), Espressioni di Gio Ponti, Triennale Electa, Daria Guarnati Editore, Milano, 2011, pp. 35-43.
18. Emblematico, in tal senso, è il suo contributo alla mostra Italy at work del 1951, dove figuravano, per altro, anche alcune ceramiche policrome di Lucio Fontana. Cfr. Penny Sparke, “The Straw Donkey. Tourist Kitsch or Proto-Design? Craft and Design in Italy, 1945-1960”, Journal of Design History, vol 11, n. 1, 1998, pp. 59-69; Antje Gamble, Cold War American Exhibitions of Italian Art and Design, Routledge, Abingdon, 20243.
19. Egli era stato tra gli organizzatori della mostra dedicata alla storia dell’architettura alla IX Triennale, nonché organizzatore, alla X edizione, del primo Congresso internazionale dell’Industrial Design.
20. “La Leonardo da Vinci”, in Arte sulle motonavi. Il varo dell’utopia (catalogo della mostra, Roma, Galleria nazionale d’arte moderna e contemporanea, 9 novembre 2016 – 8 gennaio 2017), Il leggio, Chioggia, 2016, pp. 163-207.
21. Edoardo Monaco, Memorie in corso. Un architetto racconta, Quodlibet, Macerata, 2023.
22. Riguardo alla storia dell’Italia Disegno, divenuta poi Arazzeria Scassa, cfr: Elda Danese, L’arte al telaio. L’arazzeria Scassa dal 1957 ad oggi, U. Allemandi, Torino, 2000; Donatella Avanzo e Silvana Cincotti (a cura di), Da Kandinksy a Botero. Tutti in un filo (catalogo della mostra, Venezia, Palazzo Zaguri, 1° novembre 2018 – 27 settembre 2019), Skira, Milano, 2018; Laura Ferraris e Ugo Scassa, Scassa. Arazzi contemporanei, Comune Serra de’ Conti, 2007.
23. Roma, MAXXI, Centro Archivi Architettura, Fondo Monaco-Luccichenti, Testo di presentazione delle navi, fascicolo P 165 bis, faldone n. 233.
24. Cfr. Capogrossi. Il segno nei musei e nelle istituzioni italiane, Artemide, Roma, 2022.
25. “La Raffaello”, in Arte sulle motonavi, 2016, pp. 266-305.
26. Moshe Tabibnia e Virginia Giuliano (a cura di), Intrecci del Novecento. Arazzi e tappeti di artisti e manifatture italiane (catalogo della mostra, Milano, Triennale, 12 settembre – 8 ottobre 2017), Moshe Tabibnia, Milano, 2017, p. 207.
27. “La Michelangelo”, in Arte sulle motonavi, 2016, pp. 214-265.
28. Ocean Liners, 2018, pp. 166-173.
29. Dagli archivi online della Fondazione Ansaldo: Giulio Carlo Argan, Art on board Leonardo da Vinci, Italian Line, s.d.
30. La questione dei rapporti tra la scena artistica italiana e quella americana è da alcuni anni al centro di un rinnovato interesse, che la rende un caso di studio emblematico delle dinamiche di confronto e interazione tra Europa e Stati Uniti nel secondo dopoguerra. Cfr. Lara Conte e Michele Dantini, Narrazioni atlantiche e arti visive 1949-1972. Sguardi fuori fuoco, politiche espositive, identità italiana, americanismo/antiamericanismo, Mimesis Edizioni, Milano, 2024; Flavio Fergonzi e Francesco Tedeschi, Arte italiana 1960-1964. Identità culturale, confronti internazionali, modelli americani (atti della giornata di studi, Milano, Museo del Novecento e Gallerie d’Italia, 25 ottobre 2013), Scalpendi editore, Milano, 2017; Francesco Tedeschi (a cura di), New York New York. Arte italiana. La riscoperta dell’America (catalogo della mostra, Milano, Museo del Novecento e Gallerie d’Italia, 13 aprile – 17 settembre 2017), Electa, Milano, 2017; Carla Subrizi, Europa e America 1945-1985. Una nuova mappa dell’arte, Aracne, Roma, 2008. Per uno sguardo dall’estero, cfr. Sharon Hecker e Marin R. Sullivan, Postwar Italian Art History Today. Untying ‘the Knot’, Bloomsbury, New York, 2018.
31. Cfr. Luca Massimo Barbero e Sileno Salvagnini, “Afro, gli Otto e l’America attraverso gli archivi”, in Luciano Caramel (a cura di) Afro. Italia-America. Incontri e confronti (catalogo della mostra, sedi varie, 25 novembre 2006 – 18 marzo 2007), Mazzotta, Milano, 2006, pp. 55-65.
32. Cfr. Luca Massimo Barbero (a cura di), Carlo Cardazzo. Una nuova visione dell’arte (catalogo della mostra, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, 1° novembre 2008 – 9 febbraio 2009), Electa, Milano, 2008.
33. Sulle mostre dedicate agli artisti italiani negli Stati Uniti, si fa innanzitutto riferimento a Twentieth-Century Italian Art (1949) al MoMA, cfr.: Raffaele Bedarida, Silvia Bignami e Davide Colombo, “Methodologies of Exchange: MoMA’s Twentieth-century Italian Art (1949)”, Italian Modern Art, n. 3, gennaio 2020. Si sottolinea poi anche Contemporary Italian Art (1961) a Chicago e Salute to Italy – 100 years of Italian Art 1861-1961 (1961) ad Hartford. Per quanto riguarda invece le mostre dedicate agli artisti europei ed internazionali che hanno visto la presenza di pittori italiani, si citano ad esempio The New Decade. 22 European Painters and Sculptors (1955) al MoMA, European Art Today. 35 Painters and Sculptors (1959) all’MIT, nonché le diverse International Exhibition of Contemporary Painting and Sculpture presso il Carnagie Institute di Washington.
34. Simone Bandini e Maurizio Eliseo, Michelangelo e Raffaello. La fine di un’epoca, Hoepli, Milano, 2010, p. 269.
35. Una ricca quantità di aneddoti sul tema è raccolta da “Due gemelle a New York”, Idem, pp. 95-150.
36. Michele Dantini, “Ytalya subjecta. Narrazioni identitarie e critica d’arte 1963-2009”, in Gabriele Guercio e Anna Mattirolo, Il confine evanescente. Arte italiana, 1960-2010, MAXXI, Roma; Electa, Milano, 2010, p. 264.
37. Cfr. Federica Milano, “Envisager l’artiste au travail. Histoires du mécénat industriel en Italie (1950-1960)”, Perspective, n. 1-2025, «Travail», juin 2025.
38. In alcuni periodi, il numero di passeggeri americani ha addirittura superato quello dei passeggeri europei. Bill Miller, “I transatlantici e i viaggiatori statunitensi”, in Transatlantici, 2004, pp. 219-235.
39. Clement Greenberg, “The case for Abstract Art”, in The Collected Essays and Criticism, vol. 3: Affirmations and Refusals, University of Chicago Press, Chicago, 1993, p. 150.
40. Cfr. Alex Taylor, Forms of persuasions. Art and corporate image in the 1960s, University of California Press, Oakland, 2022.
41. Giulio Carlo Argan, Art on board Leonardo da Vinci, non datato; citato in italiano in Civiltà delle Macchine, a. VIII, luglio-agosto 1960.
42. Roma, MAXXI, Centro Archivi Architettura, Fondo Monaco-Luccichenti, faldone n. 233, fascicolo P 165, «Leonardo da Vinci. Sala soggiorno 1° classe. Prospetto parete poppa. Sezione asse sala».
43. Cfr. K.L.H. Wells, Weaving modernism. Postwar tapestry between Paris and New York, Yale University Press, New Haven, 2019.
44. Cfr. Tabibnia e Giuliano, Intrecci del Novecento, 2017.
45. Cfr. Roberto Lacarbonara, Giuseppe Capogrossi e l’architettura. La cancellata della Facoltà di giurisprudenza a Bari, Silvana, Cinisello Balsamo, 2023; Francesca Pola, “Un percorso inedito. Capogrossi e gli Stati Uniti”, in Luca Massimo Barbero (a cura di), Capogrossi. Una retrospettiva (catalogo della mostra, Venezia, Collezione Peggy Guggenheim, 29 settembre 2012 – 10 febbraio 2013), Marsilio, Venezia, 2012, pp. 233-279.
46. Asti, Archivio Arazzeria Scassa, Lettera dattiloscritta di Emilio Vedova a Ugo Scassa, 19 ottobre 1964, Venezia.
47. Le presenti informazioni sono state confermate anche in dialogo con l’attuale direttore Dott. Massimo Bilotta.
48. Cfr. Iriarte. Antico e moderno nelle collezioni del Gruppo IRI, Electa, Milano, 1989; Iriarte. Raccolte d’arte nella sede dell’IRI, Edindustria, Roma, 1998.
49. Ugo La Pietra, Gio Ponti, Rizzoli, Milano, 1995, p. 328; Laura Falconi, Gio Ponti. Interni oggetti disegni. 1920-1976, Electa, Milano, 2004, pp. 187-188; Daniel Sherer, “Gio Ponti a New York”, 2011, p. 39.
50. Gio Ponti, “La nuova sede dell’Alitalia”, Domus, n. 352, maggio 1959, p. 7.
51. “Un nuovo aereo italiano”, Domus, n. 371, ottobre 1960, pp. 8-10.
52. Idem, p. 10.
53. Maria Cristina Loi, Antico e nuovo. Otto progetti di Ignazio Gardella, Maggioli, Santarcangelo di Romagna, 2018, pp. 78-81; “1958-1960 Allestimento Aerei Douglas DC-8 per Alitalia”, in Fabio Fabbrizi, Ignazio Gardella. L’arte del mostrare, Edifir Edizioni Firenze, Firenze, 2024, pp. 150-154.
54. “1958-1960 Allestimento Aerei Douglas DC-8 per Alitalia”, 2024, p. 154.
55. Cfr. Air France. L’envol de la modernité, Editions du Regard, Paris, 2013.
56. Cfr. Elena Selena, La tapisserie française du Moyen âge à nos jours, Editions du Patrimoine – Centre des monuments nationaux, Paris, 2017.
57. Air France, 2013, pp. 83-84.
58. Mathieu. 15 affiches pour Air France, Air France, Paris, 1967, n.p.
59. Martina Corgnati, Arte a bordo. La collezione in viaggio di Costa Crociere, Skira, Milano, 2010.