Fuori tema
Presente e passato
di Piero Dorazio,
alla metà degli
anni Sessanta
Luca Pietro Nicoletti
Abstract From early on, and with rare foresight for his era, Piero Dorazio was a strategic architect of his own success, fully aware of the importance of positioning himself within the dynamics of the present. He was meticulous in both crafting his public image and narrating his creative journey. Notably, several eloquent episodes from the period between 1963 and the 1966 Venice Biennale help illuminate the complex interplay of conceptual strategies—a relationship that was ambivalent yet rich in meaning, balancing stylistic concerns and ideological choices.
Keywords Piero Dorazio; Anni Sessanta / 1960s; Pittura / Painting; Narrazione / Narrative; Stile / Style
Luca Pietro Nicoletti insegna Storia dell’arte contemporanea e Grafica contemporanea presso l’Università degli Studi di Udine. Dal 2015 dirige per Quodlibet la collana di studi “Biblioteca Passaré”, e dal 2020 per Mimesis, insieme a Sara Bodini, “Archivio di Nuova Figurazione”. Oltre ad aver curato varie mostre, ha pubblicato le monografie Gualtieri di San Lazzaro (2014) e Argan e l’Einaudi (2018), curato il Dizionario Lucio Fontana (2023) ed Enrico Crispolti. Bibliografia ragionata (2024). Scrive per “il Manifesto”, “Titolo”, “la Biblioteca di via Senato”.
Punti di congiunzione
Precocemente, e con rara lungimiranza sui tempi, Piero Dorazio fu un accorto regista della propria fortuna, lucidamente cosciente di dover chiarire il proprio posizionamento nelle dinamiche del presente e, di conseguenza, accurato tanto nella costruzione della propria immagine pubblica quanto nel racconto della sua vicenda creativa. Presto, insomma, gli fu chiara l’esigenza di una selezione qualitativa e strategica delle opere con cui presentarsi alle grandi mostre e, al contempo, nella cernita di quelle più adatte a ripercorrere retrospettivamente il proprio itinerario tracciando una linea tesa e coerente, priva di sbavature o variazioni di percorso. In tal senso, nel cuore degli anni Sessanta, cadeva per lui un momento cruciale di svolta e revisione, volto a riannodare i fili di oltre un ventennio di ricerca tramite una serie di strategie e sovrastrutture concettuali, così da disseminare indizi e collegamenti fra dipinti e stagioni della sua carriera. Ci sono almeno due episodi significativi per comprendere il metodo e le sue strategie di fondo: un dipinto che viaggia da una sponda all’altra dell’oceano, forte di una peculiarità stilistica non reiterata nelle tele successive, ma caricata di senso in virtù di un titolo eloquente; una serie di omaggi a maestri delle avanguardie storiche volti a stabilire un dialogo a distanza di fronte al grande pubblico.
Presente e passato, dipinto a Roma nell’autunno del 1963 – verosimilmente in novembre se non si fraintende il numero «11» apposto dall’artista sul retro della tela1 – è per esempio un quadro atipico nella copiosa produzione pittorica di Piero Dorazio, ed è forse per questo motivo che l’artista deve averlo tenuto in gran conto in alcuni degli snodi cruciali della sua lunga carriera espositiva, non solo negli anni immediatamente successivi alla sua realizzazione, ma dandogli particolare rilievo all’interno delle mostre antologiche che lui stesso ordinò a partire dal 1975 e nei successivi vent’anni. È utile partire da qui, dunque, non solo per mettere a fuoco un punto fondamentale dello svolgimento della ricerca doraziana, ma anche per comprendere alla luce dello stile le strategie di posizionamento dell’artista all’interno di un sistema dell’arte sempre più esteso e globale. In un momento di svolta importante, in cui era necessario fare un salto qualitativo prendendo le distanze dalle motivazioni espressive del decennio precedente per giungere ad un accreditamento internazionale, infatti, Dorazio appare un regista molto consapevole della propria fortuna e della necessità di costruire un racconto teso e coerente, privo di sbavature, del proprio passato, e che questo conduca come un piano inclinato alla stagione più recente, secondo una linea di ragionamento che approda, in ultimo, nelle ragioni dello stile. Per questo, intorno alla metà degli anni Sessanta, egli comincia a disseminare una serie di indizi attraverso la selezione delle opere che invia alle grandi rassegne e quelle che utilizza per le proprie mostre personali, costruendo una ulteriore maglia di indicazioni e orientamenti attraverso un uso consapevole dei titoli di alcuni dipinti su cui si concentrerà maggiormente la sua attenzione.
Non si trattava di una strategia del tutto nuova: già nel corso degli anni Cinquanta si incontrano infatti episodi in cui la titolazione, spesso stravagante e imprevedibile, aggancia determinate serie di opere a un messaggio di fondo, e tramite questo suggerisce al pubblico più attento una indicazione per comprendere meglio le sue ragioni e, soprattutto, le sue ambizioni di pittore. Era già accaduto, per esempio, quando fra 1960 e 1961 aveva intitolato un piccolo ciclo di dipinti Crevecoeur,2 con un sofisticato riferimento, criptico per il grande pubblico, ma eloquente una vola inserito in una rete di relazioni per una platea di addetti ai lavori aggiornata sul dibattito internazionale: il nome dello scrittore francese naturalizzato statunitense J. Hector St. John de Crévecoeur (1735-1813) era infatti familiare a chi aveva letto The tradition of New di Harold Rosenberg – dato alle stampe giusto nel 1959 e verosimilmente letto dal pittore in quell’edizione (la traduzione italiana Feltrinelli arriverà nel 1964) – decantato come uno dei teorici cruciali della Parabola della pittura americana e del suo percorso di individuazione di una tipicità statunitense emancipata dalla lezione europea.
È plausibile, dunque, che anche un dipinto come Presente e passato, che indica un rapporto dialettico fra attualità e storia, possa essere letto attraverso questo filtro, offrendo qualche indizio sulle ragioni e le strategie del pittore in un momento così teso e di rapido mutamento come quello. Esposto già a partire dalla mostra personale alla sede romana della galleria Marlborough nell’autunno 1964 – quella accompagnata dalle note “cinque domande” di Murillo Mendes a Dorazio – l’anno successivo farà una traversata oltreoceano comparendo sia nella personale presso la sede newyorkese della stessa galleria sia nella grande mostra del Cleveland Museum of Art, per poi tornare in mano all’artista ed essere esposta nella sala personale alla Biennale di Venezia del 1966. È proprio l’uso che il pittore fa di questo dipinto a fargli presto assumere un ruolo significativo, un po’ per il fatto che fin da subito risulterà evidente la sua unicità all’interno della produzione dell’artista, che non realizzerà più questa specifica soluzione formale, ma da questa prenderà spunto per una serie di opere che andranno a stabilizzare il nuovo repertorio di forme dei cinque anni successivi.
Nella mostra romana del 1964 e, soprattutto, nel tour statunitense, questo dipinto era stato inserito dall’artista all’interno di una compagine cronologicamente ampia, al centro di una selezione di opere che raccontavano lo sviluppo della sua ricerca a partire dagli anni de “L’Âge d’or” e di Forma 1 fino agli esiti più recenti. Al contempo, però, erano passati alcuni mesi dall’inizio del nuovo corso di cui questo quadro fa da spartiacque fra un “prima” e un “dopo”, per cui nel momento in cui Dorazio decise di esporlo aveva già capito in che direzione stava andando la sua pittura. E se in Italia, fra 1964 e 1965, tenne quasi esclusivamente mostre di quadri recenti, Presente e passato gli serviva a raccontare la frattura, all’interno di una linea di continuità, fra la stagione delle “trame” e quello che verrà in seguito definito il momento delle “bande” di colore. Allo stesso tempo, però, quel quadro diventava importante per inaugurare un nuovo corso nel momento di organizzare la sala personale per la XXXIII Biennale di Venezia, che come di consueto l’artista aveva pensato come presentazione di un nucleo compatto e coerente di lavori dipinti dal 1963 in avanti, evitando sovrapposizioni con la precedente, cruciale partecipazione veneziana del 1960, con quei dipinti dalla trama compatta che offrivano un contributo inedito al dibattito sulla pittura monocroma, occhieggiando a Barnett Newman nella soluzione di allestimento e, di conseguenza, nel modo in cui l’artista puntava a mostrare la propria ricerca a una platea internazionale. Chi avesse visto il suo lavoro nel 1960 e fosse tornato a vederlo nel 1966 si sarebbe accorto che pur nella continuità della ricerca Dorazio aveva fatto un grande passo avanti, non al punto da sembrare un altro pittore ma da far capire che era avvenuto un cambiamento radicale nel mondo dell’arte, e che lui aveva rimesso in discussione la sua pittura precedente per ammodernarla a un clima diverso, all’interno del quale presentarsi però con una posizione autonoma, che risulterà ancora più marcata nel 1967, quando la Biennale di San Marino gli renderà omaggio accanto a Vasarely e a Roy Lichtenstein all’interno di una rassegna intitolata Nuove tecniche d’immagine,3 per la quale riproporrà ancora una volta Presente e passato insieme a Cercando la Magliana del 1964; Tutto a punta del 1966 e Al Louvre del 1967: una campionatura eloquente dei principali temi formali che aveva sviluppato in quel breve giro di anni, smarcandosi dall’immagine del pittore di “trame” luminose e baluginanti dei secondi anni Cinquanta.
È un passaggio cruciale, insomma, perché Dorazio stava allo stesso tempo rinnovando le nozioni visive del suo lavoro e dando una prima sistemazione al racconto dei suoi primi vent’anni di pittura, di cui era una prima attestazione la monografia curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco pubblicata nel maggio 1966 dalle romane Edizioni Officina di Polveroni e Quinti),4 viceversa – gli stessi che nel 1955 avevano dato alle stampe il suo La fantasia dell’arte nella vita moderna5 – in occasione della partecipazione lagunare: in quel libro, scritto dal giovane studioso, ma con una supervisione strettissima da parte del pittore stesso, veniva infatti ripercorso tutto l’itinerario astratto di Dorazio, con una prima periodizzazione del suo lavoro, una scelta di riproduzioni commentate con brevi didascalie e una antologia di testi che mescolava spezzoni di critica e sue dichiarazioni di poetica. A Presente e passato, qui, non viene riservato l’onore di una riproduzione a colori né quello di un commento specifico, ma guadagnerà uno spazio crescente meno di una decina d’anni più tardi con le prime vere mostre antologiche, a partire da quella al Palazzo del Popolo di Todi del 19756 Dorazio gli riservava un commento scritto in terza persona; alla milanese Galleria Il Milione nello stesso anno e soprattutto a partire da quella del 1983 alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma,7 per la quale l’artista redigerà un nuovo, più breve commento sempre in terza persona, rimaneggiato poi passando finalmente alla prima persona singolare in occasione delle due grandimostre di Grenoble e Bologna del 1990,8 dove avrà il compito di aprire la sezione del catalogo espressamente intitolata Le bande di colore: 1963-1968.9 Frattanto, nella lunga e densa intervista rilasciata ad Adachiara Zevi nel luglio 1985 e pubblicata nello stesso anno nella monografia delle edizioni Studio Essegi, in accompagnamento della mostra presso la Loggia Lombardesca di Ravenna,10 questo quadro era oggetto di una specifica domanda e di una altrettanto lunga e articolata risposta da parte del pittore, in una delle poche occasioni in cui abbia raccontato con una certa precisione la nascita di un’opera in particolare e non di un ciclo o di una serie, non limitandosi a una generica e complessiva dichiarazione di poetica.
Adachiara Zevi, infatti, si era resa conto che questo Presente e passato presentava delle particolarità non solo nella fattura materiale, ma anche nel titolo che l’artista gli aveva attribuito, adottando un registro differente rispetto a quelli stravaganti usati negli anni Cinquanta, desunti dalla cronaca o dalla letteratura e apposti con sfoggio di erudizione, arguzia inventiva, ma poca aderenza alle immagini che dovevano accompagnare: qui, al contrario, aveva un significato preciso che lo posizionava nel cuore di una narrazione consolidata dall’artista stesso.
Un titolo strategico, dunque, come altri che si incontreranno in questi anni, inducendo a creare dei raggruppamenti di famiglie di titoli, con una funzione di orientamento e, a volte, una concentrazione particolare sul linguaggio. Anche la decisione di anteporre il “presente” al “passato”, dunque, non fu una scelta neutra: una situazione nuova, ma che andava letta secondo le sue ragioni interne, attingendo nelle esperienze passate le radici del lavoro attuale.
Nella nota del 1975, in particolare, si legge che «Dorazio non esita a buttare a mare tutta l’esperienza dei quadri a tono dominante e delle trame pittoriche che cominciano appena ad avere riconoscimenti in Italia fra gli artisti, ma hanno suscitato già un grande interesse in Germania fra gli amici del gruppo Zero e in America, fra tutti quegli artisti che credono nella sopravvivenza della pittura astratta e delle tecniche del colore di fronte alla moda fortissima che dal gusto dell’informale sta passando decisamente col “neo-dadaismo” all’arte polimaterica». Il riferimento, in particolare, era a un articolo di polemica pubblicato dall’artista nel 1961 su “Metro” e intitolato ironicamente Neo, New, Nouveau, No,11 che prendeva di mira proprio le mode che si presentavano all’insegna del “nuovo” in quanto tale, rinunciando alle tecniche e ai modi della pittura a cui lui, invece, non aveva alcuna intenzione di venire meno.
Nelle dichiarazioni scritte a partire dagli anni Sessanta, infatti, questo discorso emerge con insistenza crescente: l’esigenza di difendere la pittura come valore visivo assoluto, che non ha bisogno di giustificazioni di contenuto esterne alle sue intrinseche ragioni formali, e che deve mostrarsi in quanto tale. L’azzardo di questi dipinti stava infatti proprio nella scelta di un ductus che si presenza come esplicita evidenza del gesto che ha tracciato una serie di segni regolari in un unico tratto, senza alcuna titubanza. «Questo quadro», prosegue la nota, «testimonia il tentativo di aprire tutto un nuovo ciclo di esperienze basate sulla scanditura dello spazio in timbri cromatici sonori e squillanti, di grande semplicità e immediatezza».12 Quest’ultimo passaggio, in particolare, sarebbe stato ripreso nel catalogo della mostra del 1983 (ma sostituendo l’idea di «semplicità e immediatezza» con il ricorso a «semplici scale di contrasto») con una ulteriore puntualizzazione utile a collocare il quadro in una sequenza storica: «Superata l’esperienza dei quadri monocromi e delle trame pittoriche, Dorazio abbandona letteralmente la “tavolozza”, smette cioè di mescolare i colori e li adopera distinti e puri, predisposti in barattoli pronti all’uso. Bisogna ricordare che la rivoluzione di Pollock, da un punto di vista tecnico, aveva avuto inizio proprio con la sostituzione della “tavolozza” con barattoli di colori industriali, smalti e acrilici».13
Sarà però Adachiara Zevi a sollecitarlo, due anni più tardi, a dire qualcosa di più a riguardo di quest’opera, dedicandogli un lungo passo che merita di essere letto per intero:
«È un quadro costruito con un metodo “passato”, cioè lo stesso con cui erano costruiti quei quadri in cui lo spazio era reso attraverso la sovrapposizione di trame e orditi dai colori diversi, costituiti non da linee ma da pennellate. C’è stato un malinteso nei confronti di quei quadri perché molta gente pensava si trattasse di righe tirate una sull’altra come fa Morellet mentre invece i miei quadri sono tradizionali, dipinti con la stessa pennellata che hanno usato Previati o Boccioni. Questi tratti in successione creano nell’occhio la sensazione di una linea che in realtà non esiste – se uno la misurasse con una riga noterebbe che è sinuosa –; l’occhio infatti corregge per sua virtù i difetti della realtà. Proprio questa irregolarità rende quei quadri più attraenti di quelli geometrici. Presente e Passato, costruito con quel sistema di incroci, avrebbe dovuto però essere realizzato con colori non di scala tonale, come quelli precedenti il ’63, ma con colori e scale di contrasto, colori primari e secondari quindi. Avevo scelto allora una serie di sette, otto colori che insieme dovevano dare la sensazione di un incrocio di sezioni, come una improvvisa sorpresa, come fari che si accendono di notte all’improvviso. Durante la lavorazione però mi sono accorto che il quadro andava per conto suo e che non potevo sottrarmi al destino di questa mia decisione. Durante l’esecuzione infatti abbandonavo piano piano tutte quelle cautele, quelle infinite precauzioni che occorrevano per realizzare i quadri che avevo dipinto in precedenza e, quando il quadro era terminato, mi sono trovato davanti all’improvviso un’immagine che non mi aspettavo assolutamente, un po’ incoerente con quanto fatto prima. La struttura era la stessa però, anziché dipingere una micro-struttura, avevo dipinto una mega-struttura, come una gigantografia di un piccolo dettaglio dei quadri più vecchi, con una scala cromatica dissonante».14
Non era la prima volta che Dorazio accostava questo dipinto alle “trame”: nella mostra di Todi, per esempio, immediatamente prima di questo aveva riprodotto Panorama diagonale del 1963, paradigmatico del momento in cui aveva cominciato ad allargare l’ordito fino a far emergere il fondo. Ad accomunare i due quadri, però, era soprattutto la scansione rimica data dalle linee bianche verticali, qui ulteriormente distanziate fino a dare una partizione dello spazio in cinque sezioni dello sviluppo orizzontale. Il riferimento a Previati e Boccioni, poi, non era affatto nuovo, anzi si ricollegava alla conversazione con Dario Durbé, direttore della Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma, e con Fagiolo Dell’arco pubblicata in apertura del catalogo del 1983: se in quell’occasione l’insistenza sull’importanza della pittura dell’Ottocento – fino a dichiarare il proposito antico di realizzare negli Stati Uniti una mostra su “La linea della tradizione italiana” che da quelle premesse arrivasse al presente – poteva apparire come un terreno di confronto con uno specialista di pittura del XIX secolo come il direttore di quel museo, ribadirlo in questa seconda occasione serviva a rinforzare il concetto di divisione del colore e, al contempo, a sottolineare le radici remote delle indagini attuali.15 Guardando però il quadro da vicino, si ha subito l’impressione che Dorazio si fosse accorto presto di essere di fronte a una possibile nuova immagine – ben prima di concludere il dipinto – procedendo per un progressivo infittirsi della superficie per strisce verticali di colore diluito finché, aggiungendo un colore alla volta, dal più chiaro al più scuro, non ha interamente riempito la tela: prima i gialli, poi i rossi, infine i verdi e i blu, che con la loro cadenza hanno dato un ritmo alla sequenza. Se l’intenzione iniziale poteva essere quella di realizzare una trama, rapidamente deve aver cambiato idea, optando per una disposizione paratattica di tutti i colori scelti. Non era nemmeno la prima volta che pensava un quadro di sole linee verticali: nel 1962, infatti, aveva dipinto Selezione, un altro quadro di grande formato che godrà di una certa fortuna espositiva,16 e che può essere letto come la base da cui sarebbe partito poi il lavoro di Presente e passato. Da quel punto così radicale e precoce, insolito e del tutto isolato entro la produzione del 1962, Dorazio poteva muoversi in più direzioni. Avrebbe potuto continuare a infittire la palizzata di linee, arrivando alla compattezza dei quadri che in quel periodo stava dipingendo Morris Louis, di cui aveva conosciuto la pittura nei suoi lunghi soggiorni di insegnamento negli Stati Uniti, e con cui più volte si vedrà messo a confronto da parte della critica italiana. Ma qui, al contrario, Dorazio si era reso conto di dover prendere le distanze da quel modello per non cadere in confusione: fra queste linee e quelle di Louis, sussiste una differenza di fondo non tanto nella stesura del pigmento per lunghe strisce parallele, quanto nella sequenza di colori e nel ritmo che ne deriva. In ogni caso, se non avesse presto deciso di cambiare strada rispetto all’intenzione di fare un quadro di trame, si sarebbe tenuto qualche colore da parte da poter sovrapporre con diverso grado di inclinazione al primo strato di righe, e non avrebbe alternato righe più chiare ad altre più scure, che già di per sé avrebbero fatto saltare l’ordito della trama. Al contrario, senza preoccuparsi di lasciare a vista la tela grezza di fondo, ha lavorato alternando strisce ottenute mascherando il supporto con del nastro adesivo, lasciando delle vistose slabbrature laterali, ma in non pochi casi ha dato delle stesure sottili, con terminazioni a punta che non si ripeteranno in seguito, e che creano delle brevi situazioni narrative: elementi a punta che sembrano attratti reciprocamente, senza arrivare mai a toccarsi. Come nel quadro di Louis, Presente e passato ha la compattezza di un’immagine serrata entro i confini della tela, ma un diverso dispiegamento dei colori: dove in Louis il movimento prende animazione da un nucleo centrale che fa da asse di simmetria a uno sviluppo quasi speculare delle due parti del dipinto, Dorazio offre una lettura da sinistra a destra su cui l’occhio deve tornare più volte a rivedere e ripassare costantemente, notando ogni volta un abbinamento di due o tre colori che prima non aveva colto.
Da qui in poi, il gioco delle combinazioni sarebbe diventato via più complesso, rendendo difficile il più delle volte decifrare la pittura, cercare di leggerne il processo esecutivo: un vero e proprio rompicapo cromatico, difficile da ricostruire nella stratificazione delle velature e, soprattutto, nella giustapposizione dei colori: come se il quadro, anziché essere frutto di un lento e meditato lavoro, si fosse improvvisamente fatto da sé, come un’apparizione.
Da Dorazio e Balla
Un secondo momento chiave per comprendere le scelte e le ragioni di Dorazio in questo momento si colloca tre anni più tardi. In preparazione della sala personale veneziana del 1966, l’artista pensò di realizzare una serie di dipinti quadrati di grandi dimensioni, in omaggio ai maestri del Futurismo italiano. Viene in mente un’analoga operazione fatta due anni prima da Mario Schifano – che in laguna aveva presentato un grande d’aprés da Leonardo da Vinci quale marchio di italianità in stretto dialogo con le istanze espressive d’oltreoceano – prima di fare a sua volta i conti col movimento marinettiano.17
Dorazio, però, si avvicinava a questo tema con uno spirito diverso, senza ricorrere ad esplicite e didascaliche citazioni iconografiche o stilistiche, senza mitologie “pop”, limitandosi ad apporre una serie di nomi a dipinti di quel momento, e tenendo il discorso nell’alveo dell’astrattismo. Per lui, del resto, il Futurismo non era soltanto la più importante avanguardia storica italiana di inizio Novecento, ma un movimento a cui avevano aderito i suoi maestri elettivi: quelli che più avevano contato nella sua formazione, e su cui a partire dai primi anni Cinquanta aveva speso un intenso impegno promozionale che passava dalla pubblicistica e arrivava all’organizzazione di mostre retrospettive negli Stati Uniti, come nel caso della mostra di Gino Severini alla Rose Fried Gallery d New York nel 1953. Questi, infatti, era uno dei due maestri con un ruolo di primo piano nel suo Olimpo della pittura. L’altro, invece, era Giacomo Balla, che fu presto identificato dai giovani astrattisti romani come il loro vero precursore.18
Dorazio prendeva le mosse in particolare da una citazione esplicita a Ottimismo-pessimismo del maestro, aggiungendovi in un secondo momento fra parentesi la dedica A Giacomo Balla, non presente in tutte le occorrenze espositive della tela.19 Il pittore aveva poi in animo di ultimare in tempo per la Biennale un dipinto intitolato Din don (Omaggio a Giacomo Balla n. 2)20 che pur nel diverso concetto immaginativo e creativo avrebbe potuto costituire un ideale dittico. Indipendentemente da quest’ultimo, che non riuscirà ad esporre a Venezia, Dorazio doveva aver sentito presto l’esigenza di dedicare anche un omaggio (a Gino Severini), risolto attribuendo questa dedica a Tranart,21 un dipinto di formato facilmente avvicinabile agli altri, seppur nato senza una precisa allusione futurista: basta sfogliare la monografia di Fagiolo Dell’Arco, uscita prima dell’apertura della Biennale, per accorgersi che a questo quadro, privo di dedica, era riservata non solo una riproduzione, ma anche un commento in cui non si faceva in nessun modo cenno in quel senso.
Qualunque sia stata la loro genesi, tuttavia, le scelte fatte da Dorazio in quel frangente sono eloquenti: dopo il “presente” delle nuove trame e delle altre costruzioni, bisognava chiudere i conti con un “passato” che periodicamente era tornato a interrogare, e su cui aveva fondato una parte importante della propria immagine agli occhi della critica. La scelta di portare a Venezia due “Omaggi”, insomma, poteva non essere scevra del pensiero di presentarsi come l’erede moderno della tradizione dell’avanguardia italiana, che non gli avrebbe consentito appellarsi a Kandinskij, o a Mondrian, che pure molto avevano contato per l’elaborazione remota del suo linguaggio, legandosi a ragioni interne difficilmente comunicabili: il Futurismo, in tal senso, era per eccellenza l’avanguardia con un marchio di italianità, una vero e proprio “made in Italy” a cui Dorazio stesso – come implicitamente osservarono quei critici che insistettero sul “garbo” italiano dei suoi dipinti – non dev’essere stato insensibile. A quelle radici, del resto, sarebbe tornato ad attingere ripetutamente, anche quando la riflessione teorica su quelle premesse si era tutto sommato sganciata dai quadri che stava dipingendo.
Per capire il rapporto stabilito da Dorazio con questi artisti bisogna andare per gradi, partendo da una piccola raccolta edita nel 1994 da Corraini, in cui l’artista enucleava le linee di fondo della sua poetica condensando «Quello che ho imparato» da una serie di maestri e amici pittori, critici e scrittori.22 Sono aforismi fra il serio e il divertito, in cui si uniscono l’aneddoto e la confessione semiseria, la riflessione sul senso della pittura e note di colore. Da Gino Severini, ad esempio, scriveva di aver imparato «che la rivoluzione più efficace è quella che si fa con l’arte perché così si può indicare come cambia la vita e dare un altro senso al mondo e ai sentimenti. Che la pittura deve tenere conto del movimento, del dinamismo; ed essere eseguita bene. Che un quadro dipinto a olio è bello quando è bene asciutto, dopo 45 anni. A fare cappelli da pittore con un giornale»23 Immediatamente dopo l’attenzione si spostava su Clement Greenberg, che gli avrebbe insegnato «a non confondere l’arte con la vita. Che quello che fa funzionare un quadro è il modo in cui è dipinto, la fattura; che l’esperienza estetica è insostituibile, non giustificabile e che dipende dall’occhio se è ben esercitato».24 Persone diverse per formazione, per indole, e per ruolo giocato nella vita dell’artista, insomma, potevano trovarsi accoppiati per affinità di contenuto, all’interno di una lunga sequenza di senso: il pittore futurista e il critico militante americano, qui, diventavano due emblemi della pittura fatta con buon mestiere, di cui è possibile apprezzare non solo il contenuto morale ma, prima di tutto, il lato formale capace di suscitare piacere estetico. Non per nulla, dopo Severini e Greenberg, la serie faceva ancora un passo indietro ricordando Alberto Magnelli. In altri punti, poi, parlando di Matisse, ritornando con la memoria a quella visita al pittore fatta molti anni prima e soggetto di un intenso e divertito articolo di quotidiano,25 aveva capito come «disegnare con il colore; che con la pittura i colori, devono ricreare e suscitare il piacere di vivere, invece di creare drammi o conflitti; a capire Giotto dai suoi colori».26
Non mancavano intermezzi, fra amici e maestri, come per Barnett Newman, che avrebbe avuto il merito di insegnargli «a dipingere quadri di grande formato come uno spazio che deve avvolgere l’osservatore “senza scampo”. A difendere l’autonomia e la supremazia dell’artista nella società borghese anche se questa lo colma di onori».27
Per arrivare finalmente a Balla, incastrato fra Atanasio Soldati e Arturo Marini: a lui il merito di avergli insegnato «che non esistono le immagini senza tenere conto della luce che le compenetra e le fa palpitare insieme a tutto ciò che le circonda. Luce e movimento sono l’essenza della realtà tutto il resto è illusione, apparenza».28
La “luce”, infatti, era il vero elemento unificatore che permettesse di apparentare la lezione di Balla con la pittura di Dorazio, fino a diventare un motivo interpretativo costante nella storiografia, a partire dal famoso testo di Giuseppe Ungaretti, prefatore poco dopo di un volume su Casa Balla accompagnato da fotografie di Virginia Dortch, a quel tempo prima signora Dorazio. Tanto valeva, a data 1994, ribadire quel debito concettuale, come in una continua ricapitolazione e messa in prospettiva storica degli anni, via via sempre più letti in chiave mitologica, del gruppo “Forma”.
È però necessario, per capire il percorso che conduce ai quadri del 1966, mettere a fuoco l’immagine di Balla che a Dorazio interessava tramandare e i valori visivi che ne conseguivano. L’incontro fra il giovane pittore e l’anziano maestro, fra anni Quaranta e Cinquanta, non è in sé un fatto sufficiente: a quegli anni risalgono anche i contatti con Enrico Prampolini,29 con cui ha stretti rapporti durante la redazione di “Arti Visive”, e a cui nel 1956 si vede persino accoppiato in un articolo di David Lewis su “Aujourd’hui. Art et architecture”, all’insegna di un tramando dei valori della pura arte astratta fra due generazioni di pittori.30 Balla aveva tuttavia svolto il ruolo di vero e proprio “antenato elettivo” per le correnti astrattiste,31 e aveva assunto nel dibattito, un ruolo che non fu riconosciuto agli altri artisti, allora ancora viventi, che avevano aderito al Futurismo in varie fasi della vita del movimento. A “salvare” Balla, insomma, era la preistoria divisionista e l’approdo alle compenetrazioni iridescenti alla metà degli anni Dieci, che permettevano di porre una cesura fra questa stagione fortunata e quello che sarebbe avvenuto dopo la Grande Guerra e negli anni del Fascismo. Su Marinetti e il suo movimento, infatti, gravava un’ingombrante ipoteca ideologica che non di rado era sfociata in vera e propria censura. Una volta sdoganato, però, restava il problema di fissare nella periodizzazione una soglia oltre la quale si sarebbe dovuto considerare il Futurismo un’esperienza epigonale non degna di attenzione storiografica: se si doveva, insomma, chiudere idealmente la partita con la morte di Boccioni in guerra nel 1916, o prendere in considerazione le successive esperienze, in cui troverà compimento il principio di una “ricostruzione futurista dell’universo” grazie a un consistente ingresso delle arti applicate fra gli interessi di questi artisti. Far pesare la bilancia dalla parte di Boccioni, come avrebbe fatto Maurizio Calvesi32 – a cui Dorazio rimprovererà di aver trascurato Balla, pur essendo cresciuto nello stabile di via Oslavia dove risiedeva l’anziano maestro33 – significava dare una lettura del Futurismo in termini quasi esclusivamente pittorici; accettare la vitalità propositiva di un “dopo Boccioni”, di cui si farà principale difensore Enrico Crispolti, significava invece aprirsi a una compagine più complessa e, al contempo, fare i conti con l’arte in Italia negli anni Venti e soprattutto Trenta.34 Balla, più anziano e ben più longevo di Boccioni, da questo punto di vista poteva costituire un vero problema, a patto, come farà Dorazio stesso, di non considerarne l’esperienza soltanto fino all’anno di morte del pittore più giovane, prestando poca attenzione alle intersezioni fra arti belle e arti applicate che sarebbero fiorite in seguito.
Lionello Venturi, per esempio, tenendo nel 1955 alla Sapienza un corso sulla pittura del Novecento – cosa in sé già eccezionale per l’università di allora – nel suo breve profilo del Futurismo ignorerà completamente il nome di Balla, circoscrivendo i suoi esempi ai soli Boccioni, Carrà e Severini, giocando tuttavia la trattazione sul binomio «linee-forza» e «colore-luce».35 Dorazio doveva pensarla evidentemente in modo diverso, come si evince da La fantasia dell’arte nella vita moderna, dove il racconto del Futurismo si fonda principalmente su tre pilastri: Balla, in qualità di decano del gruppo, approdato all’avanguardia dopo una lunga e remunerativa carriera di pittore figurativo; poi Severini e Boccioni, «due giovani di estrema sensibilità e viva intelligenza che Balla avviò alle prime esperienze divisioniste nell’ordine delle teorie che Previati e Segantini avevano dedotto dall’impressionismo, soprattutto dalla pittura di Seurat, di Signac e dalla Scuola di Pont Aven».36 Nel numero di “Art d’aujourd’hui” dedicato all’arte italiana, poi, si troverà in apertura, prima del lungo testo di Dorfles sul panorama delle ricerche concretiste italiane, un breve scritto di Achille Perilli, il sodale di Dorazio, dedicato esclusivamente alla coppia Balla-Boccioni.37
Eppure, stando alle pagine del libro del 1955, Balla figura quasi come un sopravvissuto, o almeno l’unico capace di rinnovarsi quando i tempi del vero Futurismo si potevano considerare pienamente conclusi: «Balla sarà l’unico, che rimasto solo fra pittori di poco ingegno e assolutamente impreparati alle nuove esperienze, cercherà coraggiosamente fra l’indifferenza e le derisioni, delle soluzioni alla pittura futurista nel nuovo stile dell’arte astratta costruttivista».38
Ci si sarebbe legittimamente aspettati, a questo punto, di incontrare fra le tavole de La fantasia la riproduzione di una “compenetrazione iridescente”: quelle su cui, proprio dopo la XXXII Biennale, si sarebbe appuntata l’attenzione di Fagiolo Dell’Arco, una volta licenziata la monografia su Dorazio, e non è da escludere che ci sia stato un virtuoso cortocircuito fra il sodalizio con l’amico pittore e l’interesse per il maestro futurista.39
Colpisce invece, e sarebbe facilmente fraintendibile, imbattersi nella riproduzione delle Bandiere all’artare della Patria del 1915, ora alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma: lo stesso quadro scelto da Crispolti nel 1963 per la copertina della grande retrospettiva del pittore organizzata alla Galleria d’Arte Moderna di Torino,40 che giungeva dopo la mostra dei “secondi futuristi” torinesi e la monografia a loro dedicati, a indicare il ruolo germinativo di quel quadro per vicende successive, fino a vedervi un antefatto della cultura “pop” come arte “di massa”.41
Ma per Dorazio quel quadro aveva una funzione personale più importante: quell’onda travolgente era stata la protagonista di Grande sintesi, il dipinto del 1950 portato alla mostra di Arte astratta e concreta in Italia alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma nel 1951.42 Quel Balla, insomma, spiegava le ragioni interne di uno dei dipinti più importanti che Dorazio aveva realizzato in quel momento, in cui aveva fatto una ricapitolazione dei principali temi visivi degli anni precedenti: la superficie “a tasselli”, la “rosa” dai petali spigolosi di natura architettonica, pronta a farsi paramento murario a rilievo, e infine questa “onda” che irrompeva in primo piano creando scompiglio.
Con queste premesse, dunque, l’artista era pronto a rendere un omaggio a Balla prendendo le mosse da uno dei suoi quadri più noti, Ottimismo e Pessimismo del 1923, di cui possedeva un dipinto preparatorio: uno scontro di forze reso dal contrasto fra due zone di colore dal profilo segmentato che si compenetravano entrando in conflitto. «È qui sottolineato» chiosava il pittore in terza persona nel 1983, rimaneggiando quando scritto nel 1975, «il conflitto fra le forze oscure del male e quelle luminose del bene, come aveva spiegato Balla mostrando il quadro».43 Nella nota del 1975 era stato anche più esplicito: quella spiegazione del dipinto del 1923 derivava dalla viva voce di Balla in una conversazione con Dorazio, molti anni dopo l’esecuzione dell’opera, testimoniando la continuità con cui il pittore futurista si fosse interrogato su quel tema.44 Durante una grave malattia sofferta dopo il rientro dagli Stati Uniti, dovendo però realizzare qualche quadro nuovo per la Biennale, raccontò di aver pensato di riprendere lo schema di Costruzione Eurasia del 1965, ormai geograficamente lontano, giungendo a una più netta partizione fra una zona di bande luminose e una di bande oscure, fra cui viene a crearsi un vero e proprio movimento. «Le bande», proseguiva, «si sdoppiano però qui in un tono più chiaro e uno più scuro, in un timbro più sonoro e uno più spento, in luce e in ombra. Tutta l’immagine è costruita su questo tema dualistico: sulla divergenza e sulla coesistenza delle forze negative e delle forze positive».45 Viene da chiedersi, anzi, se siano le bande scure, dipinte in un secondo momento, prossime a fagocitare quelle rosse e gialle, o se saranno invece queste ultime ad avere la meglio opponendo resistenza. Ad amplificare questa incertezza, poi, contribuisce tutt’oggi l’indicazione sul retro della tela di due possibili orientamenti del dipinto, modificando il climax del passaggio dall’oscurità alla luce o, come più spesso si è verificato, dalla luce all’oscurità. L’idea di un climax crescente, inoltre, è il solo aspetto ad accomunare questo dipinto con Din-don (omaggio a Giacomo Balla), che dopo la mancata esposizione veneziana resterà tutto sommato poco esposto, salvo comparire in grande evidenza nel 1983. Tranart, invece, conduce in una dimensione completamente diversa. Non è un quadro isolato, anzi sembra fare dialetticamente coppia con un dipinto coevo esposto a Venezia, intitolato Kundabuffer: due composizioni fondate su poche bande larghe verticali, come dei solidi pilastri, a fare da contrasto a un andamento dinamico e “diurno” nell’uno (Kundabuffer), statico e “notturno” nell’altro (Tranart). Il motivo della griglia, o meglio delle griglie intrecciate fra loro, si è fatto più complesso perché si è insinuato un elemento di finzione: come di consueto ci sono bande che si intrecciano e i cui colori si sovrappongono in trasparenza nei punti di intersezione; ma ci sono anche bande più o meno larghe che i interrompono improvvisamente come se passassero sotto la superficie della tela per riemergere poco più sopra, creando un ritmo mobile di piani che scorrono l’uno sull’altro, fra zone più scure e bagliori improvvisi, come in un gioco di controluce, ma soprattutto di equilibri fra coordinate ortogonali dentro un pelago che sembra voler condurre in profondità salvo, come di consueto, contraddirsi immediatamente sul piano visivo.
La nota più singolare, però, è il commento a caldo fatto da Fagiolo Dell’Arco: «Davanti a questo quadro “americano” di Dorazio viene immediato un richiamo al Mondrian del Boogie-Woogie: lo sfaccettamento infinito della metropoli, l’arte nascente dalla visione perfetta di un “paradiso artificiale” (il titolo allude alla corrente artistica che si dice ispirata da una droga). Ma c’è qualcosa d’altro, un discorso totale: la conciliazione di colore e monocromo, di gigante e minuzioso, di perpendicolare e obliqua. Questi ultimi sono i due principi sui quali si scontrarono Mondrian e Van Doesburg: qui conciliati in via d’ipotesi».46 Niente Severini, insomma, nemmeno nelle note di un interprete fidato che sta seguendo questa evoluzione quasi in presa diretta, ma una serie di riferimenti molto familiari a chi aveva seguito il pittore fino a questo punto.
Se anche la dizione di Omaggio a Severini fosse stata apposta per ottenere un dittico futurista a uso di Biennale, a prescindere dalle qualità intrinseche del dipinto, sta di fatto che il 1966 inaugurava per l’artista un momento di auto-revisione attraverso un recupero dei punti di riferimento del suo museo ideale. Attingendo a quadri e cicli del passato, infatti, poteva giungere a composizioni nuove. Kasimiro grandedel 1967 – un dipinto dalla lunga carriera espositiva su entrambe le sponde dell’Atlantico – allude a Kasimir Maleviĉ, a cui Dorazio aveva già riservato un giocoso omaggio nel 1954 sotto il titolo di Bene Kasimiro, debitamente pubblicato e commentato da Fagiolo Dell’Arco nel 1966. Per rinforzare quella presenza, forse già meditando di fare delle opere a grandi quadrati plasticamente rilevati come quello del 1967, aveva persino deciso di apporre il titolo Bene Kasimiro II a un altro dipinto del 1954, approdato nelle collezioni del Museo del Novecento di Milano, che fino a quel momento era stato presentato – seppur privo di indicazioni in tal senso sul retro della tela – come Gruppi minori e maggiori.47 Sin da allora, e ancor più con gli occhi degli anni Sessanta, era un modo molto atipico di rapportarsi al maestro del Suprematismo russo, che era stato oggetto di prelievi iconografici più espliciti da parte di altri artisti alla fine degli anni Cinquanta (è il caso per esempio di Lucio Fontana).48 Laddove Maleviĉ arrivava a sintesi sempre più radicali, infatti, Dorazio gremiva la composizione di quadrati fluttuanti, dando una struttura compositiva attraverso il colore: un gruppo “maggiore” di quadrati bianchi che avanza da sinistra e cerca di farsi largo fra i gruppi “minori” di due diverse tonalità di blu. Oppure, nel caso di Bene Kasimiro I, che è il vero precedente diretto di Kasimiro grande, aveva modulato dimensione e colore dei quadrati in modo da creare un effetto di avanzamento/arretramento polifonico rispetto al fondo.
Se si segue questa traccia, suggerita dall’artista stesso, si dovrebbe intendere il dipinto del 1967, e gli altri della stessa tipologia – anche se corredati con titoli di tutt’altra provenienza – come un dettaglio ingrandito delle opere del 1954, al pari delle “nuove trame” rispetto a quelle immediatamente precedenti. A questo punto, la ricerca di Dorazio si smarcherebbe dalle proposte degli artisti del suo tempo intenti a comporre il quadro soltanto per via di bande di colore, mettendosi implicitamente sotto le insegne del primo Mondrian astratto. Scegliendo Maleviĉ come referente, Dorazio pensava a qualcosa di più assoluto, o meglio di strettamente pittorico, pur non riuscendo a limitarsi a un unico quadrato, come un’icona del nulla: di quadrati, all’interno di una tela quadrata, ne colloca ben sedici, modulando gli equilibri compositivi attraverso variazioni tonali del rosso, talvolta saturo altre attutito in rosa o scurito in tono più bruno, e un quadrato giallo che tende verso il centro e fa da perno di tutto l’insieme, quasi come un’apertura. Ma come nel 1954, e qui forse davvero pensando alle fluttuanti composizioni del maestro russo, il pittore si mostra insofferente nei confronti degli schemi chiusi. Avrebbe potuto disegnare una griglia regolare e campire ogni casella di un colore, ottenendo un unico e mutevole tessuto cromatico. Altrimenti, come fece, poteva pensare il quadro come un’addizione di parti singole, come un collage di frammenti (Matisse tardo aveva qualcosa da insegnare in tal senso) messi a registro nel modo migliore possibile, ma con fessure e spazi fra l’uno e l’altro. Al contempo, non tutti i quadrati erano entrati nella tela, con importanti fuoriuscite: li si potrebbe leggere come rettangoli più stretti collocati sui bordi per chiudere la composizione. Ma è fin troppo evidente quanta importanza Dorazio desse ai margini della tela, quando intendeva mostrare un’immagine chiusa entro i confini del campo dipinto: se non lo ha fatto, vuol dire che anche quelli che sbucano fuori dalla tela sono comunque dei quadrati, e che la sua composizione è un frammento di un insieme più grande, virtualmente sviluppabile all’infinito in tutte le direzioni.
In questo modo, come già indicava La fantasia dell’arte nella vita moderna, Dorazio collocava se stesso nel punto più avanzato, o forse al capolinea, di una stagione epica della modernità.
Note
1. In attesa della pubblicazione del nuovo catalogo ragionato dell’opera pittorica di Piero Dorazio, a cura di Francesco Tedeschi, si rimanda a Dorazio, testi di Jacques Lassaigne, Marisa Volpi Orlandini e Giorgio Crisafi, Alfieri Edizioni d’Arte, Venezia 1977, n. 695, nn. 448-451. Al contempo, per gli anni in esame, si può seguire la traccia proposta da Francesco Tedeschi (a cura di), Piero Dorazio. La nuova pittura. Opere 1963-1968, Skira, Milano 2023, p. 117.
2. cfr. Volpi Orlandini, in Dorazio, 1977, nn. 448-451.
3. Nuove tecniche d’immagine, (catalogo della mostra, San Marino, Palazzo dei Congressi, 15 luglio – 30 settembre 1967), Alfieri edizioni d’arte, Venezia 1967.
4. Maurizio Fagiolo Dell’Arco (a cura di), Piero Dorazio, Officina edizioni, Roma 1966. Il saggio su Dorazio verrà ripubblicato come “Dorazio. Dal modulo al ‘signe parlant’”, in Maurizio Fagiolo Dell’Arco, Rapporto 60. Le arti oggi in Italia, Bulzoni editore, Roma 1966, pp. 217-225. Si veda anche: Fabio Belloni, “Maurizio Fagiolo dell’Arco per Piero Dorazio. La monografia del 1966”, in Tedeschi, Piero Dorazio. La nuova pittura, 2023, pp. 231-241.
5. Piero Dorazio, La fantasia dell’arte nella vita moderna, Officina edizioni, Roma 1955. Su questo volume: Luca Pietro Nicoletti, “‘La fantasia dell’arte nella vita moderna’. Note per un possibile contesto”, in Francesco Tedeschi (a cura di), Piero Dorazio. Fantasia, colore, progetto. Riflessioni sull’opera dell’artista nel contesto dell’arte degli anni quaranta-sessanta, Electa, Milano 2021, pp. 42-55.
6. Piero Dorazio. Mostra retrospettiva 1946-1975, (catalogo della mostra, Todi, Palazzo del Popolo, Sala delle Pietre, marzo-maggio 1975), Associazione piazza maggiore, Todi 1975, s. p.
7. Dorazio, (catalogo della mostra, Roma, Galleria Nazionale d’arte moderna, 7 dicembre 1983 – 5 febbraio 1984), Electa, Milano 1983, n. 39 p. 57. Si veda in particolare “Due passi indietro e tre in avanti”, colloquio con Piero Dorazio di Dario Durbé e Maurizio Fagiolo dell’Arco, Ivi, pp. 9-18.
8. Nathalie Vernizzi (a cura di), Piero Dorazio, (catalogo della mostra, Musée de Grenoble, 6 ottobre-25 novembre 1990; Bologna, Galleria Comunale d’Arte Moderna, 15 dicembre 1990 – 10 febbraio 1991), Electa, Milano 1990, n. 34 p. 82.
9. Ivi, pp. 76-99.
10. Adachiara Zevi, “Conversazione con Dorazio (Todi, luglio 1985)”, in Idem, Dorazio, Studio Essegi, Ravenna 1985, pp. 59-67.
11. Piero Dorazio, “No, New, Nouveau, No” [1961], in Idem, Rigando dritto. Scritti 1954-2004, a cura di Massimo Mattioli, Silvia editrice, Cologno Monzese 2005.
12. Dorazio. Mostra retrospettiva 1946-1975, 1975, s.p.
13. Dorazio, 1983, n. 39, p. 57.
14. Zevi, Conversazione con Dorazio (Todi, luglio 1985), 1985, pp. 64-65.
15. «Più volte tentai di convincere il proprietario della Galleria Marlborough e anche Alfred Barr a New York a organizzare una grande mostra della pittura italiana che cominciasse dalla pittura dell’ottocento – da Piccio a Medardo Rosso, da Previati e Segantini fino a Boccioni e Balla – per arrivare all’arte attuale, cercando di dimostrare che l’arte italiana ha certe sue radici e una sua peculiarità, come ce l’hanno l’espressionismo tedesco e i francesi… Una mostra di questo tipo, “La linea della tradizione italiana”, non è mai stata fatta, non è mai stato individuato questo rapporto diretto che c’è, ad esempio, tra la pittura dell’ottocento e Balla…» (“Due passi indietro e tre in avanti”, 1983, pp. 9-10).
16. cfr. Volpi Orlandini, in Dorazio, 1977.
17. Su questa vicenda: Giorgia Gastaldon, Schifano. Comunque, qualcos’altro. 1958-1964, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2021.
18. Sulla ricezione dell’opera di Giacomo Balla come precursore dell’arte astratta: Denis Viva, “Gli antenati elettivi: Giacomo Balla astrattista tre Forma 1 e Origine (1948-1954)”, Studi di Memofonte, n. 13, 2014, pp. 195-221; Idem, “Su due fortune di Giacomo Balla: qualche considerazione”, in Stefano Setti (a cura di), Sintesi astratta. Espansioni e risonanze dell’arte astratta in Italia 1930-1960, Electa, Milano 2022, pp. 68-75.
19. Cfr. Volpi Orlandini, in Dorazio, 1977, n. 885; Tedeschi, Piero Dorazio. La nuova pittura, 2023, p. 163.
20. Cfr. Volpi Orlandini, in Dorazio, 1977, n. 878; Durbé, 1983, n. 47, p. 63; Tedeschi, Piero Dorazio. La nuova pittura, 2023, p. 169.
21. Cfr. Volpi Orlandini, in Dorazio, 1977, n. 896; Tedeschi, Piero Dorazio. La nuova pittura, 2023, p. 165.
22. Piero Dorazio. «Quello che ho imparato», Maurizio Corraini editore, Mantova 1994.
23. Ivi, p. 10.
24. Ibidem.
25. Piero Dorazio, “Incontro con Henri Matisse” [1947], in Idem, Rigando dritto. Scritti 1954-2004, a cura di Massimo Mattioli, Silvia editrice, Cologno Monzese 2005, pp. 34-37
26. Piero Dorazio. «Quello che ho imparato», 1994, p. 12.
27. Ivi, p. 20.
28. Ivi, p. 22.
29. Un ricordo di Enrico Prampolini in Piero Dorazio, “Cattedre a punti” [2001], in Dorazio, Rigando dritto. Scritti 1954-2004, 2005, pp. 142-144.
30. David Lewis, “Artistes italiens de deux générations: Enrico Prampolini, Piero Dorazio”, Aujourd’hui. Art et architecture, n. 7, marzo 1956, pp. 12-13.
31. Viva, Gli antenati elettivi, 2014.
32. Maurizio Calvesi, “Il futurismo di Boccioni: formazione e tempi” [1958], in Idem, Le due avanguardie. Dal Futurismo alla Pop Art, Laterza, Bari 1984, pp. 52-83.
33. Piero Dorazio, “Tre foglie d’oro per le figlie di Balla” [2000], in Dorazio, Rigando dritto. Scritti 1954-2004, 2005, pp. 139-141.
34. L’attenzione di Enrico Crispolti per il cosiddetto “Secondo Futurismo” prende le mosse da: Enrico Crispolti, “Appunti sul problema del secondo futurismo nella cultura italiana fra le due guerre”, Notizie, a. II, n. 5, aprile 1958, pp. 34-51, ripubblicato in Idem, Il mito della macchina e altri temi del Futurismo, Editore Celebes, Trapani 1969, pp. 245-267 e in Idem, Storia e critica del Futurismo, Laterza, Bari 1986, pp. 225-246. Un ampio servizio a colori sul tema anche in Idem, “Il secondo futurismo”, Le Arti, a. XI, n. 1-2, gennaio-febbraio 1960, pp. 22-23. Cfr. Luca Pietro Nicoletti, Enrico Crispolti. bibliografia ragionata 1951-2018, Silvana Editoriale, Cinisello Balsamo 2024.
35. Lionello Venturi, Lezioni di storia dell’arte moderna. La pittura del Novecento, anno accademico 1954-1955, raccolte dall’assistente dott. Valentino Martinelli e dalla dott. Laura Drudi, Edizioni dell’Ateneo, Roma, 1955, pp. 177-186.
36. Dorazio, La fantasia dell’arte nella vita moderna, 1955, p. 70.
37. Achille Perilli, “Deux peintres futuristes: Balla et Boccioni”, Art d’aujourd’hui, n. 2, gennaio 1952.
38. Dorazio, La fantasia dell’arte nella vita moderna, 1955, p. 71.
39. DMaurizio Fagiolo Dell’Arco, Omaggio a Balla, Bulzoni editore, Roma 1967; Idem, Balla: le “compenetrazioni iridescenti”, Bulzoni editore, Roma 1968.
40. Enrico Crispolti, Il secondo Futurismo. Torino 1923-1938, Ed. F.lli Pozzo, Torino 1961; Idem, “Il “secondo Futurismo” torinese e l’Europa”, in Enrico Crispolti (a cura di), Aspetti del secondo Futurismo torinese. Cinque pittori ed uno scultore: Fillia – Mino Rosso – Diulgheroff – Oriani – Alimandi – Costa, (catalogo della mostra, Torino, Galleria civica d’arte moderna, 27 marzo – 30 aprile 1962), Albino Galvano, s. e., s. l., 1962, pp. 18-32.
41. Idem, La Pop Art, Fabbri editori, Milano 1966, p. 14.
42. Cfr. Volpi Orlandini, in Dorazio, 1977, n. 885.
43. Durbé, 1983, n. 48 p. 64.
44. Piero Dorazio. Mostra retrospettiva 1946-1975, n. 300, 1975, s. p.
45. Ibidem.
46. Fagiolo Dell’Arco, in Piero Dorazio, 1966, p. 58.
47. Ringrazio per questa informazione Iolanda Ratti e Roberto Pini del Museo del Novecento di Milano.
48. Giorgio Zanchetti (a cura di), Lucio Fontana. Concetto spaziale, 1957, Skira, Milano 2000; Idem, “Due quadri di Lucio Fontana: Concetti spaziali. Forme, 1957”, in Due quadri di Lucio Fontana. Concetti spaziali. Forme, 1957, (catalogo della mostra, Milano, Pinacoteca di Brera, marzo-giugno 2005), testi di Flavio Fergonzi e Giorgio Zanchetti, Electa, Milano 2005, pp. 14-42.